giovedì 6 aprile 2017

RECENSIONE: CORY BRANAN (Adios)

CORY BRANAN   Adios (Bloodshot Records, 2017)




Nativo della terra del Mississippi, vita vissuta tra Memphis e Nashville, marito e padre, figlio di un batterista, inizio carriera in una metal band e folgorazione cantautorale ascoltando John Prine, fa il suo ritorno a tre anni dal precedente THE NO-HIT WONDER (2014). “Sono cresciuto nel North Mississippi, ho imparato la musica dalla Chiesa e dal blues della zona. Ma sono anche un figlio di MTV”. Quarto disco (poche uscite se consideriamo che è in giro dal 2002), che ha mantenuto inalterato il carattere della sua scrittura: disincantata, sbeffeggiante e cinica, una visione della vita con in primo piano i sentimenti che spesso si ritrovano il cuore infilzato se non spezzato, malesseri e storie intriganti, tanto che i Lucero ne rimasero folgorati, citandolo in una loro vecchia canzone ‘Tears don't Matter Much’ contenuta in That Much Further West (2003). Questa volta s’inventa la sua morte e ci gioca su: ci saluta con un addio. Anche se io di questi tempi scherzerei poco con chi impugna la falce, lui lo fa alleggerendo il tema pesante. “Ad un certo punto delle registrazioni, ho realizzato che avevo almeno sette o otto canzoni che parlavano di morte. Ecco, avevo un tema”. Cory Branan è un songwriter dal passo lento, apparentemente distaccato dalla vorace velocità dell'odierno music business, capace di tenere un piede nel pericoloso outlaw country dei seventies, uno appoggiato sull' acceleratore del presente che schiaccia a suo piacimento senza compiacere nessuno, ma riuscendo a stare ben in equilibrio sulla linea della migliore tradizione rock americana, risultando persino sfuggente ad ogni etichetta musicale si voglia appiccicargli addosso. Potrete trovarci lo Springsteen di The River (‘You Got Through’), il coetaneo ma senz’altro più prolifico Ryan Adams (‘Imogene’), il country folk alla John Prine in The ‘Vow’ dedicata al padre scomparso, le languide melodie blues alla JJ Cale in ‘Walls, Ms’, i racconti notturni e jazzati alla Tom Waits (‘Cold Blue Moonlight’), il rock’n’roll dal taglio punk (‘Another Nightmare In America’), frizzanti rock’n’roll alla Buddy Holly (‘Only Know’). Ad accompagnarlo una formazione ridotta all’osso: Robbie Crowell dei Deer Tick alla batteria, tastiere e fiati e James “Haggs” Haggerty al basso. In aggiunta: Amanda Shires (violin e voce), Laura Jane Grace e Dave Hause alle voci. Adios, ma era meglio un arrivederci.








1 commento:

  1. Forse un bravo produttore/arrangiatore potrebbe migliorare qualche canzone od eliminarla; alcune di discreta qualità, per la verità,(I ONLY KNOW,YEAH SO WHAT,BLACKSBURG,ANOTHER NIGHTMARE IN AMERICA), seppure a livello musicale variamente ispirate; alcune derivative: in "BLACKSBURG" l'eco springsteeniano è sin troppo evidente. Alla fine l'album risulta piacevole, anche se forse un pizzico indisciplinato e dispersivo

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