mercoledì 28 dicembre 2016

DISCHI DEI LETTORI 2016



1-THE ROLLING STONES Blue & Lonesome 14 voti (25%)

2-DRIVE-BY TRUCKERS-American Band 13 (23%)
3-DAVID BOWIE-Blackstar 12 (21%)
4-NEIL YOUNG-Peace Trail 11 (19%) recensione
  LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 11 (19%) recensione
5-MUDCRUTCH 2 9 (16%)
  ALEJANDRO ESCOVEDO-Burn Something Beautiful 9 (16%) recensione
6-BILLY BRAGG & JOE HENRY-Shine A Light 8 (14%)
7-GRANT LEE PHILLIPS-The Narrows 7 (12%) recensione
  JOHN DOE-The Westerner 7 (12%) recensione
8-LEONARD COHEN-You Want It Darker 6 (10%)
  NICK CAVE-Skeleton Tree 6 (10%)
  DAVID CROSBY-Lighthouse 6 (10%)
9-PJ HARVEY-The Hope Six Demolition Project 5 (8%)
  THE RECORD COMPANY-Give It Back To You 5 (8%) recensione
10-BOB DYLAN-Fallen Angels 4 (7%)
   THE MARCUS KING BAND 4 (7%)
   STURGILL SIMPSON-A Sailor's Guide To Earth 4 (7%)   recensione
11-BLACKBERRY SMOKE-Like An Arrow 3 (5%) reccensione
   BOB MOULD-Patch The Sky 3 (5%)
   VAN MORRISON-Keep Me Singing 3 (5%)
   WILLIE NILE-World World Willie 3 (5%) recensione
   WHISKEY MYERS-Mud 3 (5%) recensione
   RAY LAMONTAGNE-Ouroboros 3 (5%) recensione
12-MICHAEL KIWANUKA-Love & Hate 2 (3%)
   IAN HUNTER-Fingers Crossed 2 (3%)  recensione
   BEN HARPER-Call It What It Is 2 (3%)
   DEVON ALLMAN-Ride Or Die 2 (3%)
   MAVIS STAPLES-Livin' On A High Note 2 (3%)
   ZAKK WYLDE-Book Of Shadow II 2 (3%) recensione
   HOWE GELB-Future Standards 2 (3%) recensione
  TEDESCHI TRUCKS BAND-Let Me Get By 2 (3%)
13-RADIOHEAD-A Moon Shaped Pool 1 (1%)
   GRAHAM NASH-This Path Tonight 1 (1%)
   THE CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD-Aniway... 1 (1%) recensione
   BON IVER-22, A Million 1 (1%)
   RICHMOND FONTAINE 1 (1%)
   NEUROSIS-Fires Within Fires 1 (1%)



DISCHI 2015 dei LETTORI
CLASSIFICA DEI LETTORI e miei DISCHI 2014 

lunedì 19 dicembre 2016

REPORT/LIVE: MOLLY HATCHET live @ Circolo Colony, Brescia, 17 Dicembre 2016


Brescia accoglie i Molly Hatchet sotto una fredda coltre di nebbia, così fitta che perfino trovare il Circolo Colony, situato nella periferia industriale, diventa una'ardua impresa. E forse sono proprio la nebbia e il freddo a tenere lontano il grande pubblico dall'unica tappa italiana della storica band di Jacksonville: certamente non quello delle grandi occasioni ma abbastanza rumoroso per accogliere Bobby Ingram e soci nel migliore dei modi. Di una cosa si è comunque sicuri: la nebbia ha influito nell'anticipo degli orari per permettere alla band di guadagnare un po' di tempo per lo spostamento notturno che li porterà verso la prossima tappa fuori dall'Italia, è così che mi perdo il primo gruppo di spalla, gli italiani Electric Swan, mentre del secondo, i Smokey Fingers, riesco a vedere, ma apprezzare, solamente tre pezzi.
I Molley Hatchet mancavano dall'Italia dal 2012, anno in cui aprirono per gli amici e concittadini Lynyrd Skynyrd a Vigevano. La formazione che sale sul palco del Colony è la stessa che ha inciso l'ultimo album in studio JUSTICE (ormai vecchio di sei anni, escludendo il disco di cover Regrinding The Axes del 2012), manca solo la seconda chitarra del più anziano Dave Hlubek, rimasto a casa, l'unico superstite della primissima formazione attiva tra il 1978 e il 1982. Il cantante Phil McCormack, che pur non avendo la presenza di Danny Joe Brown è ormai un veterano della band, entra in scena con un cappello calato in testa, un lungo cappotto scuro da guerra di secessione, t shirt nera del gruppo con la copertina di FLIRTIN' WITH DISASTER (disegnata da Frank Frazetta naturalmente) in bella evidenza e una pancia che esce prepotente da sotto, Bobby Ingram, colui che è rimasto l'unico depositario del nome del gruppo rimane così l'unica chitarra con il più difficile dei compiti da svolgere: fare da ritmica e liberarsi durante  i solo. E qui, apro e chiudo subito la parentesi per quello che rimane l'unico lato negativo della serata: la mancanza di una seconda chitarra si fa sentire, e per un gruppo nato con tre chitarristi diventa un duro boccone da digerire. Un plauso quindi a Ingram che tiene in piedi la baracca, sera dopo sera, con grande mestiere, ma l'introduzione di un sesto elemento gioverebbe a tutti.
Ciò non toglie nulla alla bravura del bassista Tim Lindsey, simpatico ed elegante, sicuramente il più in forma fisicamente insieme al batterista Shawn Beamer, di cui è difficile non notare i lunghi capelli in perenne rotazione durante l'intero concerto, grazie agli sbuffi d'aria artificiale che fuoriescono dalla batteria, e del tastierista John Galvin, il componente con la militanza più lunga nel gruppo, la sua entrata risale al1983. Il concerto non delude le aspettative: i Molly Hatchet hanno sempre caricato di pesantezza hard e heavy il loro southern rock e così fanno stasera, proponendo una sorta di greatest hits dove non mancano le storiche Whiskey Man (che apre le danze con l'armonica suonata da McCormack), Bounty Hunter, Gator Country, Beatin' The Odds e la parentesi dedicata alle due epiche ballad Edge Of Sundown e Fall Of The Peacemakers, unite in un medley. Escludendo una parte centrale del concerto in cui i nostri gigioneggiano un po' troppo per le lunghe con vari assoli (batteria, chitarra e tastiere), piazzati tatticamente per tirare il fiato, il finale con Dreams I'll Never See della Allman Brothers Band e con l'immancabile Flirtin' with Disaster è comunque da ricordare e portarsi a casa durante il tragitto di ritorno, affrontato sotto la stessa nebbia dell'andata. Finito il concerto, la band, confermando simpatia e disponibilità da veri signori del sud, si è presentata al banco merchandise per stringere mani e firmare autografi. Infinito rispetto.

SETLIST: Here I Go Again (Intro)/ Whiskey Man /Bounty Hunter/ Gator Country/One Man's Pleasure/Edge of Sundown / Fall of the Peacemakers/Devil's Canyon/Drum Solo/Beatin' the Odds/The Creeper/Jukin' City/Dreams I'll Never See (The Allman Brothers Band cover)/The Journey/ Flirtin' With Disaster



venerdì 16 dicembre 2016

NEIL YOUNG: gli ANNI 2000




SILVER &GOLD (2000)

 Neil Young entra nel nuovo millennio a passi morbidi con un disco di ballate acustiche che pare un seguito di HARVEST MOON, uscito ormai otto anni prima. Prodotto da Ben Keith (Jack Nitzsche si rifiuterà di produrlo dopo aver ascoltato alcuni brani), le dieci canzoni indagano perlopiù sull’aspetto intimo e famigliare (‘Daddy Went Walkin’), sull’amore (‘Razor Love’), con qualche nostalgico sguardo al passato musicale (‘Buffalo Springfield Again’). Uscirà dopo LOOKING FORWARD, il tanto atteso ma deludente ritorno di CSN&Y, a cui Young regalerà alcune buone tracce: ‘Slowpoke’ che doveva finire qui.


ARE YOU PASSIONATE? (2002)
 Il disco nasce sotto l’ombra tragica e nera dell’undici settembre (2001) e proprio da un episodio accaduto all’interno di uno degli aerei dirottati (il Flight 43) prende forma quella ‘Let’s Roll’, il cui testo mal interpretato farà tanto discutere. Le canzoni registrate prevalentemente con Booker T. & The MG’s veleggiano su un R&B mai troppo incisivo ma piacevole, seguendo le orme del più riuscito THIS NOTE’S FOR YOU. ‘Goin’ Home’, registrata con i Crazy Horse è l’unica canzone a smarcarsi nettamente dal mood imperante.

GREENDALE (2003)
 Uno degli album più ambiziosi di tutta la carriera di Young che questa volta si inventa una città fantastica, completa di cartina, personaggi, istituzioni e comparse, che diventa metafora della politica e della società americana. Un attacco diretto e beffardo che diventerà anche un film. I testi vengono però narrati su un tappeto rock blues, in generale, poco entusiasmante, ma diretto e sincero.







PRAIRE WIND (2005)
 Il disco nasce dopo i problemi di salute causati da un delicato intervento per un aneurisma celebrale che per poco rischia di essergli fatale dopo una ricaduta post operazione. Young si rimette a tempo record e finisce questo album già programmato. “ La cosa migliore sarebbe stata fare musica, così prenotammo uno studio a Nashville. Cominciai a scrivere un nuovo album. Sentivo che mi avrebbe tenuto occupato fino a quando sarei entrato in ospedale”. Un disco dai testi personali, drammatici e intimi, spalmati su un piacevole country rock senza grandi picchi ma anche senza cadute di tono. Un disco salvifico e di mestiere.

LIVING WITH WAR (2006)
 Che Neil Young si sia ripreso alla grande lo dimostra questo istant record barricadero registrato con rabbia in pochissimo tempo insieme ad una band essenziale composta solamente dal batterista Chad Cromwell, il bassista Rick Rosas e dalla tromba di Tommy Bray che compare qua e là, a cui però si aggiungono i sontuosi cori di circa cento elementi. Un hard rock folk potente e diretto, stemperato solamente dagli onnipresenti, a volte invadenti, cori. Lo spunto per tutto ciò arriva dopo la dichiarazione di guerra al Medio Oriente da parte di Bush, che verrà maltrattato in lungo e in largo (‘Let’s Impeach The President’ guida la fila). “Forse era il gruppo di canzoni palesemente più esagerate che avessi mai scritto, ma abbiamo fatto quello che andava fatto, dunque non mi pento”.


CHROME DREAMS II (2007)
 Riprendendo il titolo, e non solo, di uno dei tanti album registrati e mai usciti (il vero CHROME DREAMS sarebbe dovuto uscire nel 1977), è una raccolta di canzoni apparentemente poco omogenea (canzoni nuove e vecchie ripescate), dove si passa dal country di ‘Beautiful Bluebird’ al rock di ‘Spirit Road’, che invece pare funzionare molto bene, pur ruotando intorno alle due lunghissime ‘Ordinary People’ (diciotto minuti) e ‘No Hidden Path’ (quattordici).





FORK IN THE ROAD (2008)
 Altro disco di pancia. "Fork In The Road" esce a sorpresa anticipato da alcuni strani video postati sul suo sito Myspace. Canzoni elettriche come la tiletrack, la canzone di apertura ‘When worlds collide’, ‘Johnny Magic’, ‘Hit the Road’. Canzoni dalle chitarre metalliche (‘Fuel line’) , blues (‘Get behind the wheel’), country come la splendida ‘Light a Candle’. Tutte pero' con un denominatore in comune: i testi. Neil Young prendendo spunto dalla storia della Lincvolt Continental inizia a lavorare ad un personale progetto dedicato alle care automobili: costruire una centrale elettrica che possa fornire energia alternativa al funzionamento delle auto. "Scrivevo ed eseguivo un sacco di canzoni sulla Lincvolt e sull'argomento delle auto alimentate a elettricità. L'album Fork In The Road fu pubblicato nel 2009. Un sacco di gente s'incazzò perchè avevo fatto un album su questo argomento e ricevetti delle pessime recensioni, ma era ciò che avevo in testa e so che posso essere ossessivo. essere ossessivo non è poi così male per la creatività".


LE NOISE (2010)
Le Noise va ascoltato di notte, quando il buio si impossessa della vista e rimaniamo solitari con i nostri dubbi e pensieri. Ci voleva la mano di un produttore di grido come Daniel Lanois per dare, ancora una volta, una sterzata alla carriera di Young. Questo sarà un disco che verrà ricordato alla pari dei suoi migliori lavori. Così credo. Neil Young da solo e la sua chitarra, acustica ed elettrica. Tutti qua gli ingredienti su cui Lanois ha lavorato. Registrato nella casa del produttore, questo è un disco chitarristico al cento per cento, tutto ciò che si sente è stato prodotto dalla chitarra di Young: riverberi, note basse, rumori ed effetti che costruiscono canzoni su cui si stagliano i testi di Young. Canzoni per buona parte nate acustiche e trasformate in elettriche, un esperimento che ha dato buoni frutti. Le otto canzoni di Le noise saranno accompagnate da altrettanti video , in bianco e nero e suggestivi , girati dal regista Adam Vollick e che sembrano rappresentare alla meglio le canzoni in immagini. “Lo chiamai Le Noise, per Dan. Era uno scherzo in franco-canadese, un modo molto inglese per pronunciare Lanois”.


AMERICANA (2012)
 Non pago di sguazzare in mezzo a nastri e bobine delle sue composizioni archiviate nel fantomatico museo personale che è il suo Broken Arrow Ranch, Young ha pensato di dare una spolverata anche agli archivi del musichiere della tradizione americana, lui nato a Toronto in Canada. Per dare più sale ad un'altra delle sue bizzarre idee, ha richiamato in studio i Crazy Horse al completo, cosa che non accadeva dall'incisione di Broken Arrow(1996). Neil Young come un ragazzino alle prime armi si butta brutalmente su standard della musica americana con spietata irruenza (‘Oh Susanna’, ‘Clementine’, ‘Jesus Charlot’), avvicinandosi in alcuni frangenti all'intemperanza di Ragged Glory (1990) e continuando a portare avanti la sua idea di catturare l'immediato e darlo in pasto a tutti.


PSYCHEDELIC PILL (2012)
 Dopo l’aperitivo AMERICANA, arriva Psychedelic Pill, con un titolo che sembra rimandare inevitabilmente ai periodi "stonati" di Tonight's The Night(1975), si presenta subito in modo sontuoso ed estremo, incutendo pure un po' di timore reverenziale: 2 CD (o 3 LP) con solamente otto tracce (più una bonus track) tra cui spiccano immediatamente all'occhio i 28 minuti di ‘Driftin'Back’ e i 16 di ‘Ramada In’n e ‘Walk Like A Giant’. Dentro, tutto quello che il connubio con i Crazy Horse ci ha regalato negli anni: lunghe jam chitarristiche, assalti ruvidi, cavalcate, feedback, ma anche folk e nostalgiche melodie '50. Prodotto da John Hanlon e Mark Humphreys e registrato nello studio Audio Casablanca come il precedente Americana. A proposito di Crazy Horse: “Facendo i nuovi album Americana e Psychedelic Pill, ho scoperto che con l’andare del tempo questa potenza cosmica non solo è diminuita ma è cresciuta”.


A LETTER HOME (2014)
 L’intento sembrava pure nobile e originale: registrare canzoni come si faceva nel dopoguerra per mandare messaggi ai famigliari, proprio come fa Neil Young in apertura del disco. “Hey Mamma, il mio amico Jack ha questa scatola dalla quale si può parlare!”. Jack White fornisce la sua cabina sforna 45 giri al Third Man Records Store. Neil Young ci mette chitarra acustica e un repertorio di cover che potrebbe pure essere interessante se il suono non fosse così scadente e quasi inascoltabile. Dylan, Springsteen, Phil Ochs, Willie Nelson. Tim Hardin tra i prescelti. Ma visto che lo scopo era proprio quello: l’esperimento si può dire riuscito.


STORYTONE (2014)
 C’è l'amore per le automobili, ben rappresentato dall'acquerello in copertina e nei disegni che illustreranno la seconda parte di biografia Special Deluxe: A Memoir of Life & Cars, c'è la continua ricerca del posto ideale dove poter vivere serenamente, luogo che nella sua testa esiste già ed è dipinto di ecologico verde; c'è il tormentato amore che dopo 36 anni di matrimonio con Pegi Young ha imboccato la strada che porta verso una nuova fiamma, l'attrice Daryl Hannah che condivide con lui l'impegno ambientalista; c'è la voglia di mettersi continuamente alla prova come artista. Altro doppio come Psychedelic Pill (dieci canzoni acustiche e dieci canzoni, le stesse, risuonate con l'orchestra) altro ambizioso progetto ma interessantissimo per poter saggiarne lo stato della vena creativa (buona) e vedere lo sviluppo delle canzoni, dieci buone canzoni.


THE MONSANTO YEARS (2015)
 Se volete bene a Neil Young accetterete di buon grado anche questo disco, nato sì d’istinto, ma incentrato su tematiche care al canadese da più di quarant’anni, fin da quei versi “guarda Madre Natura in fuga” inclusi in After The Gold Rush del 1970, proseguite poi negli anni 80 con i concerti Farm Aid, messi in piedi con John Mellencamp e Willie Nelson in difesa degli agricoltori, e ribadite con forza anche durante l’ultimo tour con i Crazy Horse. L’attacco alla multinazionale agrochimica Monsanto, rea di mettere in commercio sementi OGM, è duro, liricamente ingenuo, ma non fa sconti. I figli di Willie Nelson, Lukas e Micah con i loro Promise Of The Real, accompagnano l’amico di papà come farebbero dei giovani cavalli pazzi alle prime armi con qualche pausa per tirare il fiato come nella sbilenca ballata country ‘Wolf Moon’ che si riallaccia ad HARVEST MOON.

 PEACE TRAIL (2016)
Un istant record di protesta come altri della sua discografia recente (LIVING WITH WAR, FORK IN THE ROAD, THE MONSANTO YEARS), registrato agli Shangri-La Studios di Rick Rubin in una sola settimana, per dare sfogo alle innumerevoli battaglie che sta combattendo. Un disco di pancia che sacrifica la bellezza per il messaggio. Ora sta a voi scegliere da che parte stare. Le dieci canzoni non fanno altro che rimarcare il forte impegno ambientalista che ha tenuto banco in tutte le recenti mosse con i Crazy Horse e con i Promise Of The Real: la battaglia-poi vinta- dei nativi americani contro l’oleodotto che minacciava le loro terre in North Dakota in 'Indian Givers'-da qui è partito tutto- la storia del contadino 'John Oaks', il mago dell'irrigazione che ha difeso il suo lavoro fino alla morte come ci narra la discorsiva 'John Oaks', aggiungendo qualche altra stoccata alla politica, allo sfrenato consumismo, e pure qualche vetro rotto più intimo e personale (la folkie ‘Glass Accident’) . Un bollettino pieno di notizie e qualche buona speranza come canta nella title track: "continuerò a piantare semi finchè qualcosa è in crescita". Nulla di nuovo quindi? No. Qualcosa di nuovo c'è: PEACE TRAIL è un disco totalmente acustico, scarno ed essenziale, ma incatalogabile, che suona quasi raffazzonato ad un primo ascolto ma diverso da qualunque cosa fatta prima, dove la base ritmica composta dalla batteria in grande evidenza del veterano Jim Keltner (splendido il suo lavoro percussivo e tribale lungo tutto il percorso) e dal basso di Paul Bushnell sembrano spesso fare da sottofondo alle incontenibili parole di Neil Young, cercando di inseguirlo, ma Young è un fiume in piena che va diritto per la sua strada, e quasi non si fa prendere.

vedi anche:
RECENSIONE: NEIL YOUNG-A Treasure (2011)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE- Americana (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, 21 Luglio 2014
RECENSIONE: NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL-The Monsanto Years (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Bluenote Cafè (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG+PROMISE OF THE REAL-Earth (2016)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Peace Trail (2016)


giovedì 15 dicembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 26: DAVID CROSBY GRAHAM NASH (Wind On The Water)

DAVID CROSBY GRAHAM NASH  Wind On The Water (1975)




Il tour 2016 di Graham Nash che ha toccato Como, ha rimesso in moto le pale eoliche che trasformano il vento della West Coast in energia vitale per il mio corpo. Naturale, quindi, ritirare fuori questo disco. Ho sempre avuto l’impressione, però, che i dischi del duo Crosby/Nash siano stati dimenticati in fretta, o comunque sottovalutati con il passare del tempo. Ma non fu proprio così: WIND ON THE WATER, il secondo disco uscito nel 1975 dopo il debutto in coppia del 1972, fu premiato da buone vendite all’uscita, arrivando al sesto posto nelle classifiche americane. Un punto fermo degli anni settanta dei nostri, dove Crosby e Nash portano al culmine compositivo la loro intesa musicale, lavorando in perfetta armonia, vivendo e scrivendo insieme in un bungalow a Chateau Marmont appena fuori Sunset Blv, West Hollywood, proprio dove venne trovato il corpo senza vita di John Belushi qualche anno dopo. Dalla perfetta combinazione delle voci, alle parti musicali mai così varie tra country, folk, blues e qualche fuga psichedelica, fino ai temi trattati: autobiografici (l’apertura ‘Carry Me’ scritta da Crosby), ecologisti (‘Wind On Water’ scritta da Nash e anticipata da ‘The Last Whale…A Critical Mass’, un canto a cappella di Crosby), nazionalisti (‘Cowboy Of Dreams’), mentre ‘Take The Money And Run’ che dice tutto nel titolo si rivela una pesante accusa verso chi organizzò il famoso tour reunion di CSN &Y dell’anno prima, prese di posizione sociali (‘Fieldworker’ si schierava a favore degli agricoltori sfruttati di Santa Cruz), ai rapporti umani (‘Mama Lion’ è ancora per Joni Mitchell, un amore che Nash fatica a dimenticare). “Realizzare l’album WIND ON THE WATER fu un piacere dall’inizio alla fine. Fu uno dei nostri lavori migliori. David era in eccellente forma da seduta di incisione e la band era composta da professionisti esperti…” racconta Nash. Già, vi parteciparono tra gli altri: Carole King, Jackson Browne, James Taylor, Levon Helm e i Jitters, la band che li accompagnò in quel periodo. Soffia vento soffia…


domenica 11 dicembre 2016

VOTA IL DISCO 2016

                                                          

                                                         VOTA IL DISCO 2016

Vuoi giocare al gioco da "musicofilo" più abusato, amato e odiato di fine anno? La famigerata classifica dei dischi? Anche quest'anno il mio blog ci riprova, dopo il trionfo di Lucinda Williams  nel 2014 e Warren Haynes dell'anno scorso. E' tutto molto semplice: guarda alla destra dello schermo mentre sei nel mio blog (versione web), in qualunque pagina o post, troverai un elenco di dischi (sono stati scelti da me, e rappresentano un campione dei miei ascolti, se proprio non trovi il "tuo disco dell'anno"-ed è molto probabile, lo spazio è quello che è, il tempo meno ancora, i gusti sono molto personali- puoi lasciarlo scritto nei commenti di questo post), spunta il disco (o i dischi, si possono mettere più preferenze) e clicca sul tasto "voto". Fatto? Bene. Ti stanno sul cazzo queste inutili classifiche di fine anno? Bene. Hai tempo fino al 28/12/2015 per cambiare idea. Poi tutto sarà finito, ancora una volta, giuro! Buon voto, buone feste in anticipo!

DISCHI LETTORI 2014
DISCHI LETTORI 2015

venerdì 9 dicembre 2016

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Peace Trail)

NEIL YOUNG   Peace Trail (Reprise Records, 2016)




Un disco di pancia che sacrifica la bellezza per il messaggio. Ora sta a voi scegliere da che parte stare. 


Qualche anno fa, in occasione dell' uscita del suo disco Odio I Vivi, feci una breve intervista via internet a Edda (l'ex cantante dei milanesi Ritmo Tribale), in conclusione gli buttai giù qualche botta e risposta tra cui: se ti dico “Meglio bruciarsi subito che arrugginire lentamente” (Neil Young)?
 La risposta di Edda fu: “Beh, il vecchio Neil oggi ha il triplo mento, le guance ribizze da avvinazzato e ha fatto un disco di merda. Però sempre meglio di me sarà”.
Non ricordo a quale disco si riferisse, ma credo che quella risposta potrebbe andare bene pure oggi anche se questa ultima fatica, dopo qualche ascolto, non suona proprio come un disco di merda, come peraltro si potrebbe pensare leggendo alcune recensioni sparse in rete che l’hanno già stroncato senza appello.
Cosa si può scrivere di nuovo su Neil Young e le sue compulsive uscite discografiche totalmente coerenti con la sua incoerente carriera discografica? Se dovessimo fermarci alla copertina, Edda avrebbe sicuramente ragione. La voglia di comprarlo non ti assale. Fortunatamente (??) io sono uno di quelli che del proprio idolo compra tutto a prescindere, merda o non merda. Un istant record di protesta come altri della sua discografia recente (LIVING WITH WAR, FORK IN THE ROAD, THE MONSANTO YEARS), registrato agli Shangri-La Studios di Rick Rubin in una sola settimana, per dare sfogo alle innumerevoli battaglie che sta combattendo. Anche se la primordiale 'Ohio’, canzone che diede via al tuttorimane unica e insuperabile. Un disco di pancia che sacrifica la bellezza per il messaggio. Ora sta a voi scegliere da che parte stare. Le dieci canzoni non fanno altro che rimarcare il forte impegno ambientalista che ha tenuto banco in tutte le recenti mosse con i Crazy Horse e con i Promise Of The Real: la battaglia-poi vinta- dei nativi americani contro l’oleodotto che minacciava le loro terre in North Dakota in 'Indian Givers'-da qui è partito tutto- la storia del contadino 'John Oaks', il mago dell'irrigazione che ha difeso il suo lavoro fino alla morte come ci narra la discorsiva 'John Oaks',  aggiungendo qualche altra stoccata alla politica, allo sfrenato consumismo, e pure qualche vetro rotto più intimo e personale (la folkie ‘Glass Accident’) . Un bollettino pieno di notizie e qualche buona speranza come canta nella title track: "continuerò a piantare semi finchè qualcosa è in crescita".
Nulla di nuovo quindi? No. Qualcosa di nuovo c'è: PEACE TRAIL è un disco totalmente acustico, scarno ed essenziale, ma incatalogabile, che suona quasi raffazzonato ad un primo ascolto ma diverso da qualunque cosa fatta prima, dove la base ritmica composta dalla batteria in grande evidenza del veterano Jim Keltner (splendido il suo lavoro percussivo e tribale lungo tutto il percorso) e dal basso di Paul Bushnell sembrano spesso fare da sottofondo alle incontenibili parole di Neil Young, cercando di inseguirlo, ma Young è un fiume in piena che va diritto per la sua strada, e quasi non si fa prendere. Passi jazzati ('Can’t Stop Workin', ‘Indian Givers’), chitarre elettriche che guidano 'Peace Trail' e che spuntano all’improvviso, l'andatura quasi reggae di 'Show Me', folk sbilenchi con un’armonica super satura e amplificata (‘Terrorist Suicide Hang Gliders’), momenti in cui Young sembra veramente avvinazzato in preda a vecchi fantasmi psichedelici (‘Texas Rangers’), vocoder come ai tempi di TRANS nella finale 'My New Robot' e a raddoppiare la voce in 'My Pledge'. Non manca quasi nulla. Nel bene e nel male.
Ecco perché Edda aveva ragione: comunque sia, Neil Young sempre meglio di me sarà. Anche quando butta giù un album in pochi giorni nello studio di registrazione di uno dei produttori più acclamati degli ultimi trent’anni senza badare alla perfezione (buona la prima, ottima la seconda!), con un giornale aperto ad ispirargli i testi o scovando notizie e personaggi che nessuno mette in prima pagina, due session man che lo seguono, e una copertina fatta in casa ma con i testi stampati in un gigantesco poster.
Uno dei pochi vecchi rocker a metterci ancora la faccia nelle battaglie in musica, con tutta la libertà compositiva che può giustamente permettersi. A volte zoppica ma rimane sempre in piedi. Un forte urlo politico e sociale con quella romantica ingenuità che non è mai mancata in cinquant' anni di carriera e che spesso fa la differenza.
Io lo amo già.
★ ★ ★ ★ ☆  

n.b. Maneggiare le mie parole con estrema cautela


RECENSIONE: NEIL YOUNG-A Treasure (2011)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE- Americana (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, 21 Luglio 2014
RECENSIONE: NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL-The Monsanto Years (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Bluenote Cafè (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Earth (2016)


lunedì 5 dicembre 2016

RECENSIONE: STONER TRAIN (Bannermen Of Lost Generation)

STONER TRAIN   Bannermen Of Lost Generation (2016)





Il nome potrebbe far pensare a una band proveniente dai deserti di Palm Spings arrivata fuori tempo massimo, diciamo con un ritardo di circa vent’anni, invece la pesante locomotiva proviene direttamente dalla fredda Mosca, forgiata nelle officine russe, e si trascina dietro già tre album e un paio di ep ma dal nome si capisce solo un 25% della loro proposta musicale. Attualmente a bordo ci sono solo due elementi ma bastano e avanzano per creare un micidiale cocktail di southern rock e orgoglio combattivo: la chitarra slide e la voce cavernosa sono di Serj Gdanian che domina in lungo e in largo durante le nove canzoni (per mezz'ora di musica), e la batteria è dell’italiano Ivan Mostacci, incontrato a Berlino ai tempi del terzo album e mai più uscito dalla formazione. Un disco cinico e dallo humor nero che non si prende mai troppo sul serio, nato liricamente prendendo spunto dal film cult Taxi Driver-così dicono loro-ma che musicalmente corre lungo le rotaie della vecchia America dove accanto all’assalto sonoro dell'iniziale title track trovano spazio, in abbondanza, chitarre acustiche, armonica, e banjo. La dark ballad ‘I Know The End’ valga per tutte. Prendete Zakk Wylde, gli Alabama Thunder Pussy, i Four Horsemen, Danzig, i Lynyrd Skynyrd, Hank Williams III, Scott H Biram, Johnny Cash qualche vecchio cantautore country blues, metteteli tutti insieme sopra un treno e sganciate il freno in discesa, quello che otterrete sono gli Stoner Train. Nulla di originale ma un guazzabuglio per palati forti, abbastanza intrigante per andare oltre il terzo ascolto.





venerdì 2 dicembre 2016

RECENSIONE: HOWE GELB (Future Standards)

 HOWE GELB    Future Standards (Fire Records/Goddfellas, 2016)
★ ★ ★ ★ ☆ 




C’è chi campa coverizzando antichi standard americani con la speranza di risollevarsi la carriera, HOWE GELB no: gli standard se li scrive e se li canta da solo, con la speranza che lo diventino in un prossimo futuro, cantati da altri. Un disco nato già vecchio lungo l’asse New York-Tucson-Amsterdam, che a prima vista potrebbe apparire anche molto pretenzioso, ma chi conosce Gelb sa che questo tipo di cose rientrano, da sempre, nelle sue corde di musicista, su disco ma soprattutto live quando gira da solo senza la sua creatura Giant Sand (a proposito: l’avventura continua oppure no?). Un disco mininale e jazzato, intimo, essenziale: pianoforte, basso e batteria accarezzata a colpi di spazzole, qualche raro intervento di chitarra e la voce di Lonna Kelley a duettare in più occasioni. Naturalmente ci pensa l’inimitabile voce di Gelb a portare a casa la partita. Potremmo imputargli la mancanza di un po’ di swing che faccia da rottura all’imperante omogeneità, ma sono solo quisquilie che affosserebbero l’intero progetto. Chi siamo noi per farlo? Potrebbe essere il perfetto disco natalizio, ma anche la perfetta colonna sonora per un soft porno, come qualcuno, a me molto vicino, ha suggerito. Ora scegliete voi se ascoltarlo con il naso appiccicato al freddo vetro della finestra guardando i primi fiocchi di neve scendere giù, oppure sotto le lenzuola in compagnia di chi amate di più. Sempre di sera con l’arrivo della notte, comunque. Gelb gradirebbe in entrambi i casi. Il suo essere già vecchio e polveroso lo fa apparire perfino più originale di tante altre uscite che si vantano di essere moderne.