lunedì 26 settembre 2016

RECENSIONE:IAN HUNTER & THE RANT BAND (Fingers Crossed)

IAN HUNTER  & THE RANT BAND    Fingers Crossed  (2016)
☆☆☆☆




La mia marcia di avvicinamento verso il fine settimana dedicato a David Bowie (sabato ero a Bologna per una  mostra che ha messo a dura prova occhi e udito), inizia da questi versi:
“Something is happening Mr. Jones
My brother says you're better than The Beatles or The Stones
 Saturday night, Sunday morning
 You turned us into heroes
 Can you hear the heroes sing?”
che aprono ‘Dandy’, la canzone che Ian Hunter dedica a Bowie, cantata e arrangiata proprio come avrebbe fatto Bowie nel 72 insieme all’altro compianto amico Mick Ronson, la chiusura di un cerchio, il sentito ringraziamento per quella ‘All The Young Dudes’ che il Duca Bianco regalò ai Mott The Hoople nel 1972, rilanciandone di fatto la carriera.
Anche se questa volta nasconde i famosi ricci sotto un cappello (sullo sfondo, in copertina, c’è un’altra foto a ricordarli) a settantasette anni, Hunter conferma lo stato di grazia che lo ha accompagnato negli ultimi dischi usciti dal 2001 a oggi (ricordo Rant, Shrunken Heads, Man Overboard, When I’m President). Dieci canzoni piacevolissime, registrater e prodotte nel New Jersey insieme a Andy York (presente anche con la sua chitarra), sempre in bilico tra lo sfrenato rock’n’roll glitterato british (‘That’s when The Trouble Starts’) e le profonde ballate: ‘Fingers Crossed’ si spinge indietro fino al 1700 per raccontare storie di mare e marinai, l’antica Grecia viene riesumata in ‘Morpheus’. Un continuo alternarsi di vecchie storie e presente.
L’America è dietro l’angolo come sempre, tra gli spiriti dell’amato Dylan (‘White House’,’Bow Street Runners’ che narra la storia dei fratelli Fielding in una Londra del’700), e i Sun Studios a Memphis che hanno ispirato ‘Ghosts’. C’è l’honkytonk di ‘Long Time’, perfino un accenno reggae in ‘You Can’t Live In The Past’. Metà capo banda e metà cantautore, Ian Hunter non delude, dando ancora una lezione di classe rock’n’roll, songwriting lucido e mai banale. Una lezione per i giovani e per qualche vecchietto, più giovane di lui, che vive sugli allori del passato. Nel precedente disco chiudeva con una canzone intitolata ‘Life’ che recitava così: “Easy come-easy go-just another rock'n'roll show,hope you had a great night/when you get home and climb into bed-just remember what I said/laugh because it's only life".
Rimane ancora il migliore augurio per se stesso e per chi ha ancora voglia di ascoltarlo. Se poi volete esagerare: è uscito anche un cofanetto (Stranded In Reality) con 30 cd che ripercorre l’intera carriera. Ma oltre alla voglia di esagerare bisogna avere anche tanti soldi da parte.



RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: PARKER MILLSAP-The Very Last Day (2016)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
RECENSIONE: WILLIE NILE-World War Willie (2016)
RECENSIONE: ZAKK WYLDE-Book Of Shadows II (2016)
RECENSIONE: HAYES CARLL-Lovers And leavers (2016)
RECENSIONE: STURGILL SIMPSON-A Sailor’s Guide To Earth (2016)
RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE-Another Black Hole (2016)
RECENSIONE: JOHN DOE-The Westerner (2016)
RECENSIONE: TOM GILLAM &THE KOZMIC MESSENGERS-Beautiful  Dream (2016)
RECENSIONE: MATT ANDERSEN-Honest Man (2016)
RECENSIONE: TONY JOE WHITE-Rain Crow (2016)
REPORT LIVE: GRAHAM NASH live@Teatro Sociale COMO, 3 Giugno 2016

lunedì 19 settembre 2016

RECENSIONE: GERRY BECKLEY (Carousel)

GERRY BECKLEY   Carousel    (Blue Elan Records, 2016)
☆☆☆1/2






Gli America non sono mai andati troppo di moda tra quelli che si professavano rocker veri e puri. Peccato. Figuriamoci se può far notizia nel 2016 il disco solista di uno di loro. Se poi il protagonista è il gentile e melodico tocco musicale di Gerry Beckley (voce sempre giovanile e polistrumentista in parecchie canzoni), che da sempre assomiglia al tranquillo impiegato di banca con occhialini a cui affideresti tutti i tuoi risparmi senza porre troppe domande…Io gli ho sempre affidato tanta fiducia ripagata con alcuni dei miei migliori ricordi musicali in adolescenza (il primo e sempre dimenticato disco degli America con indiani in copertina, Holiday, Homecoming, Alibi). Qui, poi, di America (quella musicale) c'è meno del solito.
Beckley recupera la metà delle sue origini british, lui nato in Texas da un papà militare dell'aereonautica e madre inglese, cresciuto poi a Londra ma con il successo che lo aspettava nuovamente negli States; e il disco è più nebbiosamente beatlesiano (dalla parte di Paul McCartney) che lucentemente californiano, anche se l’ombra al sole dei più malinconici Beach Boys si materializza spesso, e pure le passate produzioni di George Martin per gli America hanno lasciato qualche segno indelebile e ben rintracciabile. "Ogni progetto è un'istantanea del tempo. Il materiale su CAROUSEL è venuto da un ampio ambito di ispirazione". Racconta Beckley. Trainato dall'ottimo singolo 'Tokyo', anche le tre cover scelte profumano di antico: ‘'To Each And Everyone' di Gerry Rafferty, 'Don't Let the Sun Catch You Crying' di Gerry And The Pacemakers e ‘Nature’s Way’ degli Spirit.
Tutto onesto, niente di clamoroso, anzi. Mi piace. L’ho sempre saputo di non essere alla moda. Fin da ragazzino.






vedi anche
AMERICA-Back Pages (2011)
COVER ART # 5: AMERICA-Homecoming (1972)



lunedì 12 settembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 18: BOB DYLAN (Street Legal)

BOB DYLAN      Street Legal (1978)




BOB DYLAN è appena sceso dalle scale dei suoi personali Rundown Studios a Santa Monica in California. Sembra aver finito le sedute di registrazione programmate in quella giornata. È Aprile, fa caldo e tiene il giubbotto di pelle nero in mano, le maniche della camicia sono arrotolate, ma una sciarpa pende dal collo. Con la testa scruta alla sua sinistra, sembra aspettare qualcuno che lo riporti a  casa. Oppure è terribilmente indeciso sul da farsi: da una parte c’è il recente passato (il fiasco del suo film Ronaldo e Clara, il divorzio da Sara), dall’altra c’è l’invisibile soffio del vento musicale che in quel momento sembra tirare da tutt’altra parte. Furono sedute di registrazione velocissime che durarono pochi giorni nel bel mezzo di un tour mondiale, tanto che lo stesso Dylan affermò: “ non riuscivamo a trovare il produttore adatto, così utilizzammo lo studio mobile, e scegliemmo sonorità live”. “Per realizzare STREET LEGAL ci ho impiegato una settimana. L’abbiamo missato nella settimana successiva, e dopo un’altra ancora è stato pubblicato. Se non avessimo fatto tutto così in fretta, non avremmo realizzato proprio un bel niente, poiché eravamo già pieni di impegni on the road”.Quando STREET LEGAL uscì, il 15 Giugno 1978 non fu accolto benissimo dalla stampa: Greil Marcus di Rolling Stone lo definì un album “terribilmente falso”. Lo stesso Dylan non fu soddisfatto dei suoni e del mix che vennero migliorati solamente dopo l’uscita del disco in CD, molti anni dopo. Eppure a quasi quarant’anni dalla sua uscita, si conferma, oltre che uno degli album più sottovalutati della sua discografia, anche uno dei più affascinanti. Almeno per me che lo adoro. Nove canzoni in bilico tra la ballata rock e la black music, con strumenti a fiato, percussioni, cori femminili e la sua voce che cambia, ancora una volta; canzoni cariche di metafore ma che non dimenticano neppure il recente divorzio “misi su il nuovo disco di Bob e ‘Changing Of The Guards’ era la prima canzone…mi commossi fino alle lacrime. Non capirò mai di cosa parlino le sue canzoni, ma sono una mescolanza di tarocchi e simbolismo alla Giovanna D’Arco” dirà Patti Smith, con almeno quattro capolavori come ‘Baby Stop Cryin’, ‘Is Your Love In Vain’, ‘Where Are You Tonight’ e la meravigliosa ‘Senor’ , sporcata dalla polvere di frontiera, che con le sue visioni apocalittiche segnava il primo vero passo verso l’imminente conversione religiosa. 

 Dirà Dylan: “La critica ha trattato STREET LEGAL in maniera infame. Ho letto una recensione nella quale si affermava che io stavo marciando verso Las Vegas e che stavo copiando Bruce Springsteen perché avevo utilizzato il sassofonista Steve Douglas. Per quanto mi riguarda il paragone con Vegas, beh, credo che quel tizio non sia mai neppure andato a Las Vegas, e la questione del sassofono era proprio tirata per i capelli, anche perché io non copio mai dai tizi che stanno al di sotto dei cinquant’anni. Non avevo nessuna famigliarità con i lavori di Bruce, e il suo sassofonista di certo non parlava la stessa lingua di Steve Douglas: Douglas ha suonato con Duane Eddy, e in tutti i dischi di Phil Spector…”Nella mia Top 5 di Dylan un posto per STREET LEGAL c’è sempre.
 
 
 

venerdì 9 settembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 17 :JOHNNY WINTER (Nothin' But The Blues)

JOHNNY WINTER  Nothin' But The Blues  (1977)



"I'd like to dedicate this album to all the people who enjoy my kind of blues and especially to Muddy Waters for giving me the inspiration to do it and for giving the world a lifetime of great blues", scrive Winter nelle note di retrocopertina, mettendoci la firma. Disco importante che segna il ritorno al blues dei primissimi anni, dopo un paio di muscolosi episodi rock insieme a Rick Derringer, che porteranno Winter a dire: “ho suonato più rock di quanto avessi voluto fare veramente”. Mettiamoci dentro un giretto tra le droghe e il gioco (vizioso) è completo. Gran merito di questo ritorno al blues va al lavoro di produzione fatto su HARD AGAIN del suo maestro Muddy Waters, qui presente nella traccia finale 'Walking Thru The Park', l’unica non scritta dal chitarrista albino più nero di tutti. Muddy Waters: “Johnny mi ama, perché ha imparato un sacco di cose ascoltando la mia musica. Gli piaccio personalmente, come amico. Così quando ha sentito che volevamo fargli produrre il mio nuovo disco, beh era tutto quello che lui voleva. Abbiamo formato una piccola famiglia”.

La fiamma si riaccende e brucerà perpetua. Winter arriverà a considerare, a ragione, NOTHIN’ BUT THE BLUES uno dei suoi migliori dischi di sempre, quello perfetto, senza fronzoli. Altro merito va alla band, la stessa che accompagna Waters, presente al gran completo: James Cotton (armonica), Bob Margolin (chitarre), Charles Calmese (basso), Willie "Big Eyes" Smith (batteria), "Pine Top" Perkins (piano).
Tutto da ricordare. Tra elettrica, Slide e Resonator, Winter non si risparmia: dai momenti acustici (‘TV Mama’) a quelli più elettrici ( 'Everybody’s Blues’, ‘Mad Blues’). E poi chi non avrebbe voluto, ai tempi, passare una serata in sua compagnia : “sono stato fuori ieri notte, baby, stasera vado a farmi una birra” canta in ‘Drinkin’ Blues’. Buona divertimento!
"I know what a guitarist should be. He should be just like Johnny Winter. His Slide playing is like a Picasso painting! You know it is Johnny, The Picasso of Blues Guitar!"dice bene Leslie West (Mountain).


DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 1: FRANCESCO DE GREGORI- Titanic (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #2: THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #3: THE NOTTING HILLBILLIES-Missing...Presumed Having A Good Time
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #4: EDDIE HINTON-Very Extremely Dangerous (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #5: BIG COUNTRY-Steeltown, 1984
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #6: TESLA-Five Man Acoustical Jam, 1990
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 7: PRIDE & GLORY-Pride & Glory (1994)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #10: IZZY STRADLIN & THE JU JU HOUNDS (1992)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #11: WARRIOR SOUL-Drugs, God And The New Republic (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #12: IAN HUNTER-Short Black N' Sides (1981)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 13: THE DICTATORS-Go Girl Crazy! (1975)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 14: POINT BLANK-Second Season (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #15: TEMPLE OF THE DOG (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #16: NEIL YOUNG-Time Fades Away (1973)

lunedì 5 settembre 2016

RECENSIONE: WHISKEY MYERS (Mud)

WHISKEY MYERS  Mud   (2016)
☆☆☆☆





Dopo aver ascoltato l’ultimo, buono, dei Blackberry Smoke (in uscita a Ottobre), in mezzo il meno buono dei Cadillac Three (delusione), arriva anche MUD, quarto disco per la band di Palestine, Texas. Mi viene inevitabile il confronto tra le due band che in questi ultimi anni stanno tenendo in alto la bandiera del southern rock americano. A grande sorpresa devo constatare che i WHISKEY MYERS fanno un grande passo in avanti in virtù di un gran cantante con i controcoglioni come Cody Cannon (quello che manca ai Blackberry Smoke, secondo me) che consente loro maggior versatilità nel songwriting e varietà nelle soluzioni musicali. Prodotto in modo perfetto da Dave Cobb, un’altra sicurezza già dietro a Chris Stapleton e Jason Isbell, a colpire oltre ad un immancabile inno sudista (‘Deep Down In The South’) e alle tracce più marcatamente rock ed elettriche come l’epica avanzata della title track e di ‘Frogman’ scritta insieme a Rich Robinson (Black Crowes), sono l’uso di un violino nell’infuocata apertura ‘On The River’, dei fiati che spuntano in ‘Lightning Bugs And Rain’, dei cori femminili presenti in abbondanza (nel soul ‘Some Of Your Love’) , del rispetto verso il passato nell’omaggio ‘Hank’ (sì, Hank Williams), del pianoforte che conduce la bella ballata con finale elettrico ‘Stone’, delle atmosfere folk (‘Trailer We Call Home’) e bluegrass della finale, corale e alticcia ‘Good Ole Days’. Dal fango emergono buone cose. Un piccolo manuale di southern rock, senza virgole fuori posto, che potrà dare molte soddisfazioni alla band e ideale conferma dopo il precedente EARLY MORNING SHAKES (2014) che già diede parecchie soddisfazioni.



RECENSIONE: WHISKEY MYERS-Early Morning Shakes (2014)
RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE-Like An Arrow (2016)
RECENSIONE: CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD- Anyway You Love, We Know You Feel (2016)



giovedì 1 settembre 2016

RECENSIONE:BLACKBERRY SMOKE (Like An Arrow)

BLACKBERRY SMOKE  Like An Arrow (2016)
☆☆☆☆




“Riporteranno il il southern rock sulla retta via”. Così l’illustre Gregg Allman lanciava il gruppo di Atlanta in tempi non sospetti. Il minimo che la band guidata dal cantante e chitarrista Charlie Starr potesse fare era invitare il vecchio Gregg (che fortunatamente sembra essersi ripreso anche da alcuni malanni) a duettare in una loro traccia. Avviene in ‘Free On The Wing’ che chiude LIKE AN ARROW, quinto album che esce (il 14 Ottobre) a solo un anno dal precedente HOLDING ALL THE ROSES, un disco che non mi aveva convinto, complice la pessima, o anche troppo perfetta, produzione di Brendan O’Brien che pompava e addomesticava il suono allo stesso tempo, riuscendo però nell’intento di portare il nome sulla bocca di più rocker possibili sparsi in giro per il mondo, Italia compresa. Notevole successo anche per le loro due date milanesi e quella romana.
Questo volta i Blackberry Smoke fanno tutto da soli al Quarry Recording Studio a Kennesaw in Georgia, registrando dodici tracce che ritornano ad essere coperte di vecchia e sporca polvere, la stessa che si adagiava sull'album THE WHIPPOORWILL (2012): dai momenti più ariosamente country di ‘The Good Life’, ‘Running Through Time’ e ‘Sunrise In Texas’, alle grintose chitarre in prima linea di ‘Waiting For The Thunder’ ‘Workin’ For A Workin Man’ e ’Like An Arrow’, dal blues di ‘What Comes Naturally’, al trascinante boogie di ‘Let It Burn’ fino a chiudere con il funk di ‘Believe You Me’ che ricorda gli ancora innavicinabili Black Crowes. Sotto il sole del sud le barbe continuano a crescere, piano piano imbiancano pure e i Blackberry Smoke sono ormai un punto fermo del nuovo southern rock. "Questo album autoprodotto è il nostro culmine, dopo 15 anni in cui proviamo a piantare la nostra bandiera nel panorama musicale. Non potremmo essere più orgogliosi di esso" parole di Charlie Starr.

RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE-Leave A Scar (2014)
RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE-The Wippoorwill (2012)