venerdì 17 giugno 2016

RECENSIONE: PAUL SIMON (Stranger To Stranger)

 PAUL SIMON  Stranger To Stranger (Concord Records, 2016)





Ahhhh questi ultrasettantenni. Li adoro un po’ tutti. Ancora. Chi è fermo sullo stesso marciapiede da una vita, chi ha cercato di cambiare strada, senza le capacità al cambiamento, facendo pessime figure per poi ritornare sui propri passi in fretta e chi cambia, con la naturale propensione al cambiamento, rischia e porta a casa sempre qualcosa di interessante. Paul Simon appartiene a questa terza categoria. Un curioso, un viaggiatore. STRANGER TO STRANGER sta bene proprio lì: tra, i per me inarrivabili, GRACELAND (1986) e THE RHYTHM OF THE SAINTS (1990), ma alcuni semi di world music li aveva già gettati insieme a Art Gurfunkel e fin dal primo album solista del 1972, e lo strano e ostico esperimento con Brian Eno in SURPRISE (2006), che in verità dovrei riprendere in mano senza avere il coraggio di farlo una volta per tutte, e l’ultimo uscito, il buon SO BEAUTIFUL OR SO WHAT (2011). Simon è ancora un folk singer con l’accento pop marcato (che voce!) certamente tra i più atipici, (‘Insomniac’s Lullaby’, solo chitarra e voce che chiude il disco ma è stata anche la prima canzone scritta per l’album, ce lo dimostra) a cui piace ancora avventurarsi in giro per il mondo e saltellare avanti e indietro nel tempo, raccontare di omicidi consumati in famiglie benestanti in quel di Milwaukee (‘The Werewof’), di campioni di baseball “velocissimi” degli anni ’30 (‘Cool Papa Bell’), di veterani di guerre mica troppo lontane da noi (‘The Riverbank’), homeless visionari (‘Street Angel’) e guaritori brasiliani (‘la stupenda’Proof Of Love’) . Di amore. Sopra alla sua valigia non mancano, anche questa volta, adesivi stampati nella lontana Africa, in Sud America, in Spagna (c’è tanto Flamenco) e pure in Italia. Il coraggio di non rinnegare il presente, ma viverlo, lo porta all’incontro, avvenuto a Milano e proseguito via Internet, con Cristiano Crisci o Digi G’Alessio (scegliete voi) e il suo progetto dance Clap! Clap!. Ecco che la presenza di loop, campionamenti e elettronica diventano il collante che unisce i suoi viaggi fisici e mentali. In modo perfetto. Senza strafare. Senza Paul Simon: Digi G’Alessio o Cristiano Crisci (scegliete voi ancora una volta) per me sarebbe rimasto per sempre dentro ad una discoteca di provincia. Invece no.
Con ‘In A Parade’, anche se qui Clap! Clap! non ci sono, si balla parlando di schizofrenia! Un disco compatto (38 minuti, 11 canzoni) che inizialmente da l’impressione di incompiutezza, tanto che due tracce, ‘The Clock’, ‘In The Garden Of Edie’, sono corti riempitivi, ( e qui arriva la versione deluxe a rimpolpare) ma poi si rivela per quello che è: il disco, con belle canzoni-la liquidità della title track con la tromba di C.J. Camerieri (immaginatela  sulle labbra di Miles Davis), mi ha già invaso-di un esploratore che non ama i confini e che già nel 1976 diceva di essere “ancora pazzo dopo tanti anni”. Pensate cos’è oggi!




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