domenica 31 gennaio 2016

RECENSIONE: PETER CASE (HWY 62)


PETER CASE 'HWY 62' (Omnivore Records, 2015)






Sentieri sonori
Tutti abbiamo la nostra Highway 62 da percorrere. Sulla strada che dal Messico arriva fino in Canada, hanno viaggiato poeti, santi, corrotti, rigattieri, spacciatori. Ma anche Buddy Holly e Woody Guthrie. Peter Case su quelle strade, dalle parti di Buffalo, ci è nato e cresciuto. Dopo cinque anni di assenza ritorna con un disco impeccabile che riprende il discorso acustico dei suoi esordi solisti, lasciando da parte il lato più elettrico della sua musica. Dalla iniziale 'Pelican Bay', descrizione e denuncia del sistema carcerario e giudiziario americano, a 'Long Time Gone' recupero di un Bob Dylan d'annata, è un tragitto folk blues percorso sulla corsia preferenziale, e benedetto dalla slide ospite di Ben Harper e dalla batteria di D.J. Bonebrake (X). La riconferma di aver fatto la scelta giusta, quando abbandonò le strade post punk percorse in gioventù con i Nerves e poi i Plimsouls per virare verso i più tranquilli sentieri roots. (Enzo Curelli) da CLASSIX! # 46 (Gennaio/Febbraio 2016)




RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)




mercoledì 27 gennaio 2016

RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS (The Ghosts Of Highway 20)

 LUCINDA WILLIAMS  The Ghosts Of Highway 20 (Highway 20 Records/Thirty Tigers, 2016)





Se è vero che meno te la passi bene, più sei prolifico ed ispirato, a Lucinda Williams dobbiamo erigere un totem per il modo in cui ci sta spiegando questa semplice equazione di vita tanto veritiera quanto amara. Suo malgrado, purtroppo, e mettendo BLACKSTAR di David Bowie fuori classifica per ovvie ragioni che non sto qui a spiegare. Noi da ascoltatori egoisti gioiamo in rispettoso silenzio. Negli ultimi anni ha viaggiato spesso su queste autostrade di vita con la sofferenza al fianco, seduta silente nel lato passeggeri: dopo la morte della madre che guidò la stesura di WEST (2007), ora è la morte del padre, lo scrittore e poeta Miller Williams, la principale e più sentita delle perdite umane tanto da ispirarle due canzoni dolorose e struggenti come il folk di If There's A Heaven e If My Love Could Kill. In quest'ultima, la malattia  che ha portato via il padre, l'Alzheimer, s'innalza a protagonista in negativo, ladra di tempo, speranze e memoria, divoratrice di pelle e di ossa. Quasi da brividi. C'è però un altro padre che è uscito dalla sua vita recentemente: il genitore del marito e produttore Tom Overby, a lui è dedicata la cover di Factory di Bruce Springsteen. Overby senior fu un operaio diligente per tutta la sua esistenza e la canzone di Springsteen, originariamente contenuta in DARKNESS ON THE EDGE OF TOWN dipingeva la dura vita di un altro padre, Douglas Springsteen: "è una vita di lavoro, nient'altro che lavoro" è il concetto. Lucinda la fa sua infarcendola oltre modo d'enfasi. Un inno per tutti gli eroi della classe operaia.
Nel giro di due anni ci dona due doppi dischi (ben otto facciate di vinile per volere esagerare) nati e cresciuti insieme ma profondamente diversi e distinti, a partire dalle atmosfere musicali pigre, malinconiche e rarefatte che avvolgono le quattordici canzoni, tanto che House Of Earth, il cui testo è di Woody Guthrie ma non era mai stato musicato fino ad oggi, sembra  un sussurro cantato a voce bassa a tarda notte, con tutta l'accortezza di far meno rumore possibile. Diversi sono anche i musicisti  che l'hanno accompagnata in studio: oltre a David Sutton (basso) e Butch Norton (batteria), spiccano le chitarre di Greg Leisz, la sei corde che esce alla sinistra delle nostre casse, di Bill Frisell quella nella parte destra. Chitarre protagoniste che generano fantasmi nella spettrale I Know All about It, creano atmosfera nell'acustica Place In My Heart, e tessono tristi ragnatele di morte in Death Came.
Dopo il pluri glorificato e premiato DOWN WHERE THE SPIRIT MEETS THE BONE, disco che nulla aveva da invidiare ai suoi dischi più riusciti, CAR WHEELS ON A GRAVEL ROAD (1998) in testa, questa volta affronta a modo suo il tema del viaggio facendo tappa nelle città che hanno segnato la sua vita (i nove minuti del folk crepuscolare Lousiana Story parlano di sua madre, del luogo dove è sepolta), spesso in modo doloroso, ripercorrendo quella strada che dal Texas porta alla Carolina del Sud e mettendo in fila tutti quei ricordi (fantasmi) che la legano ai territori del Sud e che l'epicità della title track con la chitarra di Val McCallum espongono così bene in primo piano. "Conosco questa strada come il palmo della mia mano/Ogni uscita lascia un po' di morte"
Un disco con pochissimi assalti rock: Doors Of Heaven tra le più elettriche, il country di Bitter Memory tra le più mosse e frizzanti, i tredici minuti della finale Faith & Grace, la più particolare, aperta e senza schemi, e con la sezione ritmica quasi funky in primo piano. Meno diretto rispetto al precedente, preferisce nascondersi dentro alle ombre dei silenzi, spiare dall'uscio e poi addentrarsi negli angoli più oscuri della vita. Le canzoni hanno il passo lento, cupo e malinconico, ma si distinguono tutte per profondità, ispirazione e tanto vissuto. Troppo vissuto. Ballate da prendere in blocco, tormentate, che alla fine lasciano un velo di tristezza nel cuore e piacere nelle orecchie (il suono delle chitarre è tra i punti di forza). Questa è la sua strada. La sa a memoria e si viaggia bene. Ancora una volta.




RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-Blessed (2011)




lunedì 25 gennaio 2016

RECENSIONE:ANTHRAX(For All Kings)

ANTHRAX-For All Kings (Nuclear Blast, 2016)




Ho sempre amato il carattere degli Anthrax. Un gruppo che non si è mai preso troppo sul serio (la copertina del nuovo album disegnata da Alex Ross parla chiaro ancora una volta), eppure si è sempre dimostrato attento osservatore del mondo, portando a galla ingiustizie e precarietà. E FOR ALL KINGS non difetta: ‘Evil Twin’ nasce dopo l’attentato parigino alla sede di Charlie Hebdo e fa da traino a tutto il disco. Tutti possiamo essere dei re a patto di prenderci le nostre responsabilità, è questo il messaggio del titolo spiegato dal veterano chitarrista Scott Ian. Anche se non ho ancora perdonato loro la cacciata di John Bush con cui avevano inciso uno dei migliori e sottovalutati dischi pesanti degli anni novanta (SOUND OF WHITE NOISE) devo ammettere che il ritorno dello storico vocalist Joey Belladonna, fin dal precedente ma riuscito a metà WORSHIP MUSIC, sembra aver riportato un minimo di freschezza e pure un marcato ritorno all’epicità che serpeggiava in dischi come lo storico SPREADING THE DISESAE (1985).
Basti ascoltare gli intermezzi presenti in ‘Breathing Lightning’ o gli otto minuti della pesante ‘Blood Eagle Wings’. Piace pure il groove di ‘Defend Avenge’ guidata dal basso di Frank Bello e il mid-tempo‘This Battle Chose Us’, mentre ‘Zero Torelance’ chiude ad alta velocità un disco che non ha degli anthem che si possano avvicinare al vecchio repertorio e inchiodarsi nella testa, ma dimostra sia la sua forza che il suo limite nella compattezza d’insieme e in una insistita ricerca melodica che spesso cozza troppo con il vecchio repertorio di una delle quattro band da prima pagina del thrash metal americano. Insomma, manca un po’ di sana cattiveria. Con il batterista Charlie Benante spesso in infermeria (il tunnel carpale da poca tregua), è da segnalare, infine, l’entrata in pianta stabile del chitarrista Jon Donais (ex -Shadows Fall) al posto di Rob Caggiano, passato definitivamente nei danesi Volbeat.



martedì 19 gennaio 2016

RECENSIONE:THE UNION FREEGO (In Null Komma Nichts)

THE UNION FREEGO  In Null Komma Nichts (2015)






Non ho mai capito come funzioni il marketing discografico. Oddio, un'idea ce l'avrei pure, ma...non importa. Mi interessa, invece, capire perché questo disco non stia girando come dovrebbe tra gli appassionati di musica. Buona musica. Non so se per pigrizia, modestia o falsa modestia degli autori, ma sto riscontrando l'assenza della dovuta pubblicità. Oppure la colpa è semplicemente di noi che stiamo intorno e non cogliamo qualche messaggio nascosto, ma...nuovamente, non importa. Per cui mi prendo le mie responsabilità e faccio lo sporco lavoro (comunque bellissimo): se amate il classic rock americano, quello che nasce dal vecchio folk più oscuro e sporco, incontra prima Bob Dylan sulla propria strada, la parte visionaria e psichedelica di fine sessanta, poi la west coast californiana e più malata dei '70 e la vecchia old black di Neil Young che allunga sulle curve a gomito, sfiora il Paisley underground degli anni ottanta, l'alt country recente di Uncle Tupelo e Wilco, quello più recente ancora di Okkervil River e Decemberists e finisce la sua corsa alzando la polvere dei deserti dell'Arizona (Calexico, Giant Sand) e anche po' più a sud, cercate il secondo disco della band bresciana. Non ve ne pentirete. Una band che conferma di essere un organico compatto e tenuto insieme dall'amicizia, a proprio agio tra la rilassatezza compositiva e il totale distacco da certi circuiti e cortocircuiti del mercato discografico, e forse la loro forza sta tutta lì, in quella pigrizia compositiva: il primo EP GREETINGS FROM THE NE uscì nel 2005, il primo album HARD FOLK LIGHTNING SUCKER nel 2009. Una band dal passo lento che sembra uscire allo scoperto solamente quando ce n'è bisogno e quando i numerosi impegni lo permettono. Ora a sei anni di distanza l'organico di esperti musicisti formato da Ronnie Amighetti (chitarra e voce), Marco Franzoni (chitarre), Matteo Crema (basso) e Beppe Facchetti (batteria) ingloba al suo interno la tromba di Francesco Venturini, che diventa presenza fissa e indispensabile per segnare questo nuovo corso, ospita Ottavia Brown (voce in Waltz In The Desert) e Filippo Pardini (sax in Everywhere e Family) e vira il proprio sound, senza snaturarlo troppo, verso le lande più marcatamente tex mex del proprio background (Vision, Waltz). Mantenendo quella capacità camaleontica di passare dal caldo al freddo, dal pulito allo sporco.
IN NULL KOMMA NICHTS vengono ripresi vecchissimi brani da tempo già presenti nei loro concerti, altri vecchi ma non troppo estrapolati dalla band parallela DAS tra cui una quasi morriconiana Surrender e una magnifica Incandescent Translucent Magnificent, e si prosegue con la saga Judo#3 iniziata fin dal primo EP, un brano presente nei loro tre dischi e suonato per tre volte in modo diverso.
Forse ho capito: la buona musica non ha bisogno di essere svenduta in radio e tv ma necessita e richiede l'amore e la curiosità anche di un semplice passaparola. Io vi ho avvertito. Ora lo sporco lavoro fatelo anche voi. Come si dice: fate girare. Oppure presentatevi a un loro concerto prima che la cover di Don't Cry No Tears di Neil Young faccia calare il sipario sull'esibizione. E' il loro arrivederci preferito. Forti della recente e calda serata in apertura a Tito & Tarantola, da qualche parte vi aspettano. Lì danno il meglio.

Qui sotto il video di Blues For An Asshole (dal loro primo disco HARD FOLK LIGHTNING SUCKER) registrato live proprio in apertura per Tito & Tarantula, il 7 Settembre 2015 alla Latteria Molloy di Brescia








THE UNION FREEGO, live @ I Love Cocaine, Montichiari (BS), 18 Dicembre 2015



lunedì 18 gennaio 2016

RECENSIONE: THE BOTTLE ROCKETS (South Broadway Athletic Club)

THE BOTTLE ROCKETS South Broadway Athletic Club (Bloodshot Records/IRD, 2015)






Duri a morire
Disseminata lungo la strada del tempo un po’ di quell’ energia giovanile che nei primi anni novanta ne fecero, insieme ai vicini di casa Uncle Tupelo, tra i portabandiera dell’alt country (oppure chiamatelo Americana), la band di St. Louis guidata dagli unici sopravvissuti della prima incarnazione, Mark Ortman e Brian Henneman (che dei Tupelo fu anche roadie e chitarrista) non ha smarrito la schietta attitudine e quella semplicità che ne hanno fatto una delle band più stimate ma anche dimenticate e sottovalutate di quella generazione. La recente ristampa dei due primi album, ad opera della Bloodshot Records, potrebbe aiutare nel darvi un’idea.
La vita vista dal basso, la strada e le periferie rimangono ancora le fonti principali a cui attingere per costruire le canzoni: quando ripassano gli insegnamenti melodici degli amati Byrds in Dog, quando si lanciano all’inseguimento delle chitarre più rozze dei Crazy Horse nel blue collar rock di Building Chryslers, oppure quando nuotano nelle atmosfere country e ariose di Smile. Una garanzia. Enzo Curelli 7 da Classic Rock # (Dicembre 2015)






martedì 12 gennaio 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 8: TIN MACHINE (Tin Machine)

TIN MACHINE-Tin Machine (1989)




Se BLACKSTAR è un trionfale e geniale commiato al mondo che solo David Bowie poteva inventarsi, l'ultimo capolavoro, c’è stato un periodo, all’alba degli anni novanta, in cui cercò riparo all’ombra della sua stella. Ennesimo trasformismo: si nasconde e camuffa dentro a una band, senza vistosi trucchi ma indossando semplicemente una barba più lunga del consueto, una camicia bianca, una cravatta e abiti scuri. La prima vera volta a carriera già avviata. Abbandonando per una breve parentesi le mire da rockstar solista e lasciando alla sezione ritmica dei fratelli TONY e HUNT SALES (presenti in LUST FOR LIFE di Iggy Pop), ma soprattutto alla chitarra selvaggia e pungente di REEVES GABRELS , che in alcuni punti straborda nel noise, il compito di caricare a salve un disco rock, grezzo, istintivo e vario quanto basta per segnare un netto confine tra il recente passato pop (TONIGHT, NEVER LET ME DOWN), fortemente preso di mira dalla critica musicale, e il prossimo futuro non ancora scritto.
 “Non voglio più essere David Bowie, voglio diventare solo il cantante dei Tin Machine” dirà con convinzione. Con questo intento e seguendo le orme di nuovi amori musicali (Pixies) e anticipando, perché no, nuove correnti musicali in dirittura d’esplosione, si spinge verso torrenziali blues come l’iniziale ‘Heaven’s In Here’ e la marziale ‘Crack City’ che sembra addirittura citare i Black Sabbath nell’incipit iniziale, anfetaminici hard rock come ‘Sacrifice Yourself’ e il singolo ‘Under The God’, veloci incursioni in territori punk ( ‘Tin Machine’ e ‘Pretty Thing’), senza mai rinnegare buoni esercizi bowiani come ‘Prisoner Of Love’ , la citazione a Warhol in ‘I Can’t Read’ che lo riporta quasi ai livelli eccelsi dei ’70 (“Andy where's my 15 minutes?”) e una rivisitazione di ‘Working Class Hero’ di John Lennon che per l’occasione è rivestita di funk soul acido e corrosivo. Seguiranno ancora TIN MACHINE II (1991) e la testimonianza live di OY VEY, BABY (1992). Poi tornerà a fare DAVID BOWIE a tempo pieno ma sotto altri cieli. Amo questo disco.





DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 1: FRANCESCO DE GREGORI- Titanic (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #2: THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #3: THE NOTTING HILLBILLIES-Missing...Presumed Having A Good Time
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #4: EDDIE HINTON-Very Extremely Dangerous (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #5: BIG COUNTRY-Steeltown, 1984
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #6: TESLA-Five Man Acoustical Jam, 1990
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 7: PRIDE & GLORY-Pride & Glory (1994)

lunedì 4 gennaio 2016

RECENSIONE: CHEAP WINE (Mary And The Fairy)

CHEAP WINE  Mary And The Fairy (Cheap Wine Records, 2015)






Secondi a nessuno
La presenza del loro CRIME STORIES (2002) nel novero dei venti dischi rock italiani da avere, scelti da Federico Guglielmi su queste pagine, potrebbe bastare come buon biglietto da visita e incuriosire chi ancora non li conoscesse. La band dei fratelli Marco e Michele Diamantini arriva anche al prestigioso traguardo dei vent’anni di carriera con il secondo disco dal vivo dopo il doppio STAY ALIVE! (2010). Quello che esce prepotente da questi concentratissimi sessanta minuti di classic rock, registrati durante la data del 30 Aprile al Teatro Sperimentale della loro Pesaro, è la perfetta coesione raggiunta negli anni (in mezzo alle chitarre, in cattedra ci finisce spesso il pianoforte di Alessio Raffaelli) e culminata nella perfezione degli ultimi due album in studio. Anche stavolta troviamo quella voglia di fare musica che non si è mai spenta, né piegata a mode e che mai ha tentato di percorrere le facili scorciatoie del successo. Le canzoni scelte sono solamente otto ma le capacità di riarrangiarle, allungarle (Mary) e farle rivivere le fanno sembrare infinite e senza tempo. Avanti così. Enzo Curelli 8, da Classic Rock #37 (Dicembre 2015)

RECENSIONE: CHEAP WINE-Beggar Town (2014)
RECENSIONE: CHEAP WINE-Based On Lies (2012)


sabato 2 gennaio 2016

DISCHI 2015 dei LETTORI


1-WARREN HAYNES-Ashes And Dust (25 voti)
2-KEITH RICHARDS-Crosseyed Heart (Recensione) (18 voti)
3-CHRIS STAPLETON-Traveller (Recensione) (14 voti)
4-RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (Recensione) (13 voti)
   GANG-Sangue e Cenere
5-CHEAP WINE-Mary And The Fairy (11 voti)
6-JOE ELY-Panhandle Rambler (Recensione) ( 9 voti)
   THE DECEMBERISTS-What a Terrible World...(Recensione)
7-ANDERSON EAST-Delilah (8 voti)
8-BOB DYLAN-Shadows In The Night (Recensione) ( 7 voti)
   BLACKBERRY SMOKE-Holding All The Roses
   STEVE EARLE-Terraplane (Recensione)
   LOS LOBOS-Gates Of Gold
9-BUDDY GUY-Born To Play Guitar (Recensione) ( 6 voti)
   THE WATERBOYS-Modern Blues
10-RYAN ADAMS-1989  (Recensione) ( 5 voti)
    NEIL YOUNG-The Monsanto Years (Recensione)
11-THE SONICS-This Is The Sonics ( 4 voti)
    JESSE MALIN-Outsiders (Recensione)
    TOM JONES-Long Lost Suitcase (Recensione)
12-DAVE and PHIL ALVIN-Lost Time ( 3 voti)
    SEASICK STEVE-Sonic Soul Surfer (Recensione)
    DAVID CORLEY-Available Light
    PETER CASE-HWY 62
13-BANDITOS-Banditos  (Recensione) ( 2 voti) 
     BILL FAY-Who Is The Sender? 
     CALIBRO 35-S.p.a.c.e. 
    MOTORHEAD-Bad Magic 
14-MARK LANEGAN-Houston (Recensione) (1 voto)
     FAITH NO MORE-Sol Invictus
     DAVID GILMOUR-Rattle That Lock-
     JESSE MALIN-New York Before The War
     THE WHITE BUFFALO-Love And The Death Of Damnation (R
    ANDREA BIGNASCA-Gone
    CLUTCH-Psychic Warfare
    HIGH ON FIRE-Luminiferous

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