giovedì 26 marzo 2015

RECENSIONE: LUCA ROVINI (La Barca Degli Stolti)

LUCA ROVINI  La Barca Degli Stolti (autoproduzione, 2015)



C'è una foto che dipinge bene le strade blu percorse (e quelle ancora da percorrere) dagli stivali di Luca Rovini: è stata scattata in Febbraio nel locale L'asino che Vola di Roma e ritrae il cantastorie toscano in mezzo ai due fratelli De Gregori: Francesco da una parte, Luigi Grechi dall'altra. Un gran colpo, e lo sarebbe per qualunque cantautore italiano. Due personaggi che sembrano racchiudere bene le caratteristiche principali della sua musica fatta in casa: le parole italiane impresse su un quaderno made in USA con tanti fogli di blues, folk e country che svolazzano, lasciando cadere, di volta in volta, politici, ballerine, amori, amanti, sognatori, illusi e ubriachi. Lui e noi. Dal primo e più famoso dei fratelli ha ereditato la forte passione per Dylan (ascoltate la dura Cappotto Di Vita, una meravigliosa narrazione che potrebbe essere uscita da Desire del Sommo per come è stata rivestita musicalmente), dal secondo, quello meno famoso, lo spirito artigianale e vagabondo che non gradisce troppo le spinte per farsi largo ma che può ancora fare la differenza in termini di sincerità, passione e onestà. Rovini ha percorso molti chilometri dal precedente Avanzi e Guai, tanto da arrivare addirittura a toccare l'acqua -il vino rimane da bere-trovandosi in pieno mare aperto dove la barca dipinta dal padre Umberto (stupenda anche la copertina) è una metafora di vita senza scadenza: cade a pezzi e va a fondo ma chi sta sopra non se ne cura e continua a far festa. Fottiamocene di un mondo che sta naufragando verso il basso e continuiamo a fare quello che più ci piace, sembra il messaggio, e Rovini nuota bene in quelle acque.
Sulla strada ha perso qualche amore, si è trascinato con forza gli affetti più cari e ha raccolto intorno a sè tanti amici musicisti pronti ad aiutarlo, sì perché, oltre a mantenere una scrittura limpida, ficcante e vissuta, La Barca Degli Stolti si differenzia da Avanzi E guai per le tante sfumature strumentali che gravitano intorno alle parole. Il presente violino di Chiara Giacobbe (Gocce Rosse Della Sera, Cappotto Di Vita), la presenza di un pianoforte (Francesco D'Acri) nell'apertura Dove Bevo Il Mio Cuore, la bizzarra andatura sbilenca di Il Quartiere Della Follia, incontro stralunato a tarda sera, sopra un marciapiede, tra Captain Beefheart, Tom Waits e uno sfuggente Dylan periodo Blonde On Blonde, dove l'amico-un po' di tutti dal suo ingresso in società in quel di Padova-Caterino "Washboard" Riccardi fa il bello e cattivo tempo con i suoi marchingegni da poche lire (che l'euro non ci piace). Scoppia La Testa è ormai il trademark, la sua sigla, già presente in Avanzi e Guai, qua viene trasformata nuovamente e funziona che è una meraviglia. Nuovamente.
Mentre le atmosfere desertiche, folk, agrodolci e solitarie di Verso Casa sono l'ulteriore conferma della buona qualità di scrittura. E poi, tante chitarre suonate dal fedele Claudio Bianchini e da Don Leady, l'armonica di Andrea Giannoni, la fisarmonica di Andrea Giromini (Incontro Al Tuo Viso). Ritroviamo perfino i fratelli De Gregori nelle due cover del disco, e non è un caso: traduttori dei testi di Powderfinger di Neil Young e The Angel Of Lyon (L'Angelo Di Lione) di Tom Russell.
Rimangono i difetti di chi è troppo sincero (spesso si chiamano pregi, quando va male anche guai), di chi manda avanti il cuore aperto, in avanscoperta tra le intemperie della vita: Dove Bevo Il Mio Cuore è il suo battito vitale, la cardiografia che disegna il percorso artistico ed umano. Poco importa se rimarrà anche questa volta Senza Una Lira. Le cose importanti, quelle che contano, sono tutte qua dentro.

vedi anche
RECENSIONE: LUCA ROVINI-Avanzi e Guai (2013)

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