domenica 30 novembre 2014

RECENSIONE/REPORT (le parole, i deliri, il sudore) EDDA live @ Blah Blah, Torino, 22 Novembre 2014

le parole
[Metà concerto]. Un rigolo di sudore scende dalla pelata, i capelli sono andati a fare un giro da alcuni anni e non svolgono più una delle loro funzioni principali: fermare il sudore generato da un concerto di Stefano Rampoldi. Non sono più tornati i capelli. Non li aspetto nemmeno più, sto bene così. Edda sì, lui è tornato veramente. Sta bene pure lui, però. Oddio, ho anche i brividi e non è colpa nemmeno di Edda, questa volta. Devo assolutamente uscire dalla sala. Non respiro. Mi ritrovo in Via Po in maniche di T-Shirt, è un sabato sera di fine Novembre e la movida torinese è in pieno fermento. Chissà se qualcuno di questi ragazzi ventenni che mi stanno a guardare-potrebbero pure essere miei figli- sa che lì dentro al Blah Blah c’è un tizio che si fa chiamare Edda e il suo nuovo disco è così chiacchierato (tutta colpa di una sparata di Umberto Palazzo) quanto stupendamente bello e osannato dalla critica (tutto merito suo). Non sono miei figli e nemmeno mi stanno guardando veramente. Rientro nel locale, sono un po’ confuso e il mal di schiena che mi perseguita da tutta la settimana sembra saperlo e infierisce. Mi fermo davanti ai cessi, c’è una parvenza di coda o forse no, è solo gente che riempie il locale come può. Non indago, ma nemmeno piscio. Rientro nella piccola sala concerto tutta nera con la vescica carica, il mal di schiena e il sudore non ancora asciutto. Praticamente uno straccio. Sono peggio di Edda quando si faceva, che invece trovo in forma smagliante: prima del concerto cena davanti al palco con band e amici, lo osservo da lontano. Promette bene. Lo invidio anche un po’. Un gruppo di famiglie francesi sta facendo apericena (si dice così oggi) di fianco al mio tavolo, uno dei papà assomiglia a Claudio Lippi poco più magro e fa continuamente spola tra il tavolo e i vassoi del cibo. Mangia, mangia che fra poco non sai cosa ti aspetta. Verrà invitato ad alzarsi con tutta la famiglia per far posto agli spettatori del concerto. Così si fa. C'è un tempo per tutto e stasera siamo tutti qua per Edda. Claudio Lippi no.
[Metà concerto e qualcosa in più]. Riprendo la mia posizione con la vescica piena, il sudore e tutte le altre cose fuori posto. Forse mi sono perso una canzone, forse due, non lo saprò mai. Edda questa sera ha deciso di metterla sul cabaret e mi risolleva il morale. Quando prima di Io E Te, coglie l'assist di una ragazza: “Ti tocca!”, “Mi tocco” è la risposta, è pure la fine ed inizia a delirare con un monologo infarcito di oceani di latte (sì, ok, è sperma) e lontane avventure "bagnate" Hare Krishna in quel di Londra. Mi risollevo, respiro forte e sarà tutto in discesa fino alla fine e appuro che lui, in fondo in fondo, sta sempre peggio di me. E' così che mi piace. Intanto Marco Maccarini imperversa da destra a sinistra della sala con un cavalletto e una video camera, da pure un po’ fastidio. Ma cosa puoi dirgli? Cosa puoi dire a tutte queste persone che stasera hanno deciso di passare qualche ora (alla fine sarà un’ora sola e poco più) in compagnia di Edda? Bravi, continuate così. Edda guarda l’orologio: “sono le undici, per mezzanotte conto di mandarvi tutti a casa”. Pater te la aspetti in conclusione, invece è giocata subito (colpa del batterista Fabio Capalbo, dice Edda, "decide lui la scaletta"), Bellissima si presta bene ad essere suonata a Torino, Uomini (unica concessione al passato tribale) è stravolta e privata di phatos ma va ancora una volta benissimo così. Edda è come il gioco del martello al luna park: quando la martellata è pesante e forte ti stende con la babele noise di Coniglio Rosa, con i growl quasi alla Phil Anselmo su Stellina, con la stupenda HIV (“una canzone beneaugurante…tanto si muore”), tra le cose migliori dell’ultimo disco, con l’urgenza punk di Ragazza Meridionale, suonata come forse faceva solo nel 1985 a Villa Amantea, con la carica stoner di Mademoiselle; quando la martellata è debole e molle ti stende ugualmente con il pianoforte di Saibene (canzone stupenda con l'unico difetto -o pregio?-di trovarsi a fine disco, l'ultimo), sulla nuotata in crescendo (anche mimata) di Organza, sulla nuotata tossica (anche vissuta) tra le vie di Milano (“sapessi come è strano voi di Torino, e mi Milan”), Odio I Vivi in solitaria e l’Innamorato, il mio picco emozionale della serata.
Edda imbraccia la chitarra come un pesante attrezzo da lavoro assassino e comanda e detta i tempi, bisticciando con le parole e la scaletta, riprendendo scherzosamente e a più riprese Fabio Capalbo alla batteria e Luca Bossi al basso e tastiere, arrangiatori su disco (“arrangiatori che si arrangiano”) ma bravissimi. In verità sono loro a tenere in piedi il sound intorno alla sua spiazzante e potentissima voce (ah, cosa potrebbe fare con quella voce?), ma non ditelo a Edda. Lo sa già.
Finisce il concerto, Edda non pantomima nessun bis e si siede immediatamente davanti al palco per foto e autografi. Vorrei fargli i complimenti, una foto con lui già ce l’ho, ma la mancanza d’aria ha ancora la meglio e dovrei fare la coda, come ai cessi. Esco veloce, nemmeno saluto alcuni amici, e penso: va bene così, con i propri miti bisogna tenere sempre le distanze. Salgo in macchina e mi sparo nuovamente Stavolta Come Mi Ammazzerai? da cima a fondo. Cazzo, potevo fare la foto.





vedi anche
RECENSIONE: EDDA-In Orbita (2010)
RECENSIONE: EDDA-Odio i Vivi (2012)
INTERVISTA a EDDA
LIVE EDDA, Tronzano Vercellese, 8 Gennaio 2011
RECENSIONE: RITMO TRIBALE-Bahamas
RECENSIONE: NO GURU-Milano Original Sountrack (2010)
INTERVISTA NO GURU (Alex Marcheschi)
RECENSIONE: ILVOCIFERO-Amorte (2013)
RECENSIONE: UOMINI-I Ritmo Tribale, Edda e la scena musicale milanese. Di ELISA RUSSO (2014)
EDDA live @ Torino, Blah Blah, 22 Novembre 2014
RECENSIONE: EDDA-Stavolta Come Mi Ammazzerai? (2014)


lunedì 24 novembre 2014

COUNTING CROWS live@Milano, Alcatraz, 23/11/2014




 

 
 



Le due ore di ieri sera sono ciò che si avvicina di più alla mia personale definizione di “magia della musica”. Andare ad un concerto con la testa infarcita di mille preconcetti verso una band, ed uscirne totalmente estasiato. Capita. Sapete, quando ad un certo punto invece di seguire quello che succede sopra al palco, la mente inizia a vagare nel domani, a pensare alla strada del ritorno, al lavoro che ti aspetta, alle cazzate… No, ieri sera non è successo. Mi sono goduto ogni singola nota, ogni singolo movimento. Ero concentrato e rapito, tanto da invidiare anche le magliette di Duritz (Electric Warrior dei T.Rex e Sonic Reducer dei Dead Boys: le voglio). Non so se cambierà il mio (NON) rapporto con i loro dischi. Sicuramente NO. Sicuramente sarò presente all’appuntamento promesso da Adam Duritz a fine serata sulle note di ‘California Dreamin’. A presto.

SETLIST: Round Here/Scarecrow/Richard Manuel Is Dead/Cover Up The Sun/Mr. Jones/Colorblind/Mercy/Omaha/Possibility Days/1492/Miami/Like Teenage Gravity (Kasey Anderson)/God Of Ocean Tides/Goodnight L.A./Big Yellow Taxi (Joni Mitchell)/Earthquake Driver/Blues Run The Game (Jackson C. Frank)/A Long December/Hanginaround/Palisades Park/Rain King/Holiday In Spain 

 
 
 

mercoledì 19 novembre 2014

RECENSIONE: HOLLY WILLIAMS (The Highway)

HOLLY WILLIAMS The Highway (Georgiana Records/IRD, 2014)



Basterebbero i nomi che accompagnano la sua biografia e le note in calce a questa sua terza uscita discografica per far posare su Holly Williams tutta l'attenzione di qualunque musicofilo con le antenne diritte e puntate in America, sintonizzate su qualche radio a tema, quelle che trovi solo negli States, divulgata lungo interminabili highway da percorrere in solitaria. Avvenenza a parte, naturalmente. Oppure basterebbe il solo cognome, anche se è meglio non farlo notare ad alta voce: "mi fanno sempre le stesse domande a cui potrei rispondere per tutto il giorno: cosa fa ora tuo padre? o come ci si sente?, è una benedizione o una maledizione?, ma penso che ormai, al terzo album, la gente stia cominciando a capire che non canto perché mio padre è un musicista, hanno finalmente capito che suono da dieci anni in una band". Figlia di Hank Williams Jr.-a sua volta figlio della tradizione musicale americana del ventesimo secolo, tradotto in Hank Williams Sr,- sorellastra di quello scavezzacollo senza età di Hank III (chi lo avrebbe mai detto?), per questo terzo album- il migliore dopo The Ones We Never Knews (2004) e Here With Me (2009)-uscito da circa un anno in patria ma distribuito solo ora in Europa, si avvale inoltre della collaborazione di Jackson Browne-un piccolo sogno avverato- nei cori della delicata Gone Away From Me, molto vicina alle corde del cantautore, di un altro figliol prodigo, Jackob Dylan-a proposito di famiglie che contano-seconda voce della pianistica e melanconica Without You, e di una amica come l'attrice Gwyneth Paltrow, voce in Waiting On June, canzone dedicata ai nonni che chiude splendidamente il disco, senza dimenticare il marito Chris Coleman, musicista presente e determinante  e il produttore Charlie Peacock, buon lavoratore dietro ai dischi dei Civil On War.
Holly Williams, però, vive la musica diversamente dal restante nucleo famigliare, apparentemente in modo distaccato: ha una grande passione per la moda, è proprietaria di una boutique d'abbigliamento, partecipa a programmi televisivi di cucina, altra sua grande passione, ma ogni tanto si ricorda dei geni che gli scorrono sotto pelle e quando lo fa è capace di lasciare piccoli e piacevoli segni attraverso una scrittura profonda, scavando tra gioie e dolori della vita, sua (tra le gioie la prossima maternità), e dei tanti personaggi che popolano le sue liriche, a partire dalla donna alcolizzata presente nell'iniziale Drinkin'.
Scrittura intimista, più vicina ai grandi songwriter dei '70 piuttosto che alla grande  tradizione country nashvilliana. Il riuscito up tempo country (Railroads), l'amore, il senso di appartenenza famigliare (Giving Up), introspettiva ma fortemente ancorata, attraverso un country/folk delicato che non perde mai di vista la melodia-a volte eccedendo- ma dove violini e lap steel fanno comunque il loro lavoro: nella ballata The Highway che esorcizza l'incidente stradale che la vide coinvolta nel 2006, anche se il meglio arriva quando si lascia andare, uscendo dai binari che si è auto imposta, concedendosi alla semplicità più rozza e spartana come succede in Let You Go, solitario folk per sola chitarra, lap steel e mandolino o nella più rockata ed elettrica 'Till It Runs Dry.
Brillante ma omogeneo, privo pure di quell'affondo da ricordare, in The Highway fila un po' tutto liscio come un'autostrada senza curve. Per incantare i serpenti dell'outlaw country a ciglio strada o chi cerca solamente paragoni senza uscire dall'ambito famigliare serve ben altro, eppure possiede in dote quell'onestà che spesso fa la differenza e porta a casa la partita. Qui c'è.






vedi anche
RECENSIONE: MARY CUTRUFELLO-Faithless World (2014)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)


lunedì 10 novembre 2014

RECENSIONE : DAMIEN RICE (My Favourite Faded Fantasy)

DAMIEN RICE   My Favourite Faded Fantasy (Atlantic, 2014)




Ti attacca quando hai la guardia abbassata. Quando il sistema immunitario del cuore ha finito il suo turno giornaliero, lasciando l'entrata incustodita per pochi attimi. Basta poco e tac, ti penetra dentro. E' facile entrare e impossessarsi delle emozioni quando sono lasciate incustodite, rivoltarle come un calzino usato da mettere in lavatrice, centrifugarle e farle uscire quasi come nuove, pronte di nuovo all'uso fino a renderle nuovamente lise dopo un altro ascolto, e poi un altro ancora. Da principio. E' facile se ti chiami Damien Rice, hai una voce cristallina ed emozionante, hai una delle migliori opere prime degli anni 2000 in tasca, quel O (2002) che fece prima spalancare le orecchie di tanti, poi lanciare il suo nome in alto nell'olimpo dei grandi paragoni (il nuovo Tim Buckley? il nuovo Jeff Buckley?), infine diventare a sua volta qualcuno da imitare, è facile se vivi la musica in modo apparentemente distaccato in un mondo che invece vuole tutto e subito, dove la quantità supera molto spesso la qualità, e raramente viaggiano insieme. Qui sì. E' facile per lui, difficile per molti altri. L'ultimo Rhythm and Repose (2012) di Glen Hansard ci va vicino, soprattutto nelle tematiche: l'abbandono.
E' tutto quello che è successo dopo l'ascolto di My Favourite Faded Fantasy e dire che queste canzoni non fanno  assolutamente nulla  per  compiacere più di tanto l'ascoltatore-anche quello più distratto-arrivano a toccare gli otto minuti di durata (la folkie innalzata al gospel Trusty And True), tanto che qualcuno ci ha già visto dietro la noia (siete dei bugiardi). Ascoltare i nove minuti e trentadue secondi della seconda traccia It Takes A Lot To Know A Man è puro godimento: inizio pianistico, l'entrata degli archi a sbuffare aria fredda, la voce cullante, i silenzi, un fuoco che brucia, le onde in lontananza, e poi nuovamente  pianoforte e archi a condurre verso un crescendo finale che brucia. Il piccolo capolavoro del disco.
L'irlandese triste Damien Rice è un puro di natura, un'anima semplice e sfuggente a cui piace lavare i panni dell'anima in solitudine, in contemplazione e intimità, senza fretta, con tutta la calma concessagli dalla parte più slow di questo mondo (tre album in dodici anni, il terzo disco uscito a ben otto anni dal secondo 9).  Perché il marciapiede da condurre con lentezza esiste ancora, non è un caso che si sia autoesiliato per anni dal mondo (lui la chiama "transizione") e sia poi giunto in Islanda per scrivere e suonare, l'oasi meno contaminata d'Europa, e poco importa se di mezzo c'è un volo di andata e ritorno nella convulsa Los Angeles ai piedi di Rick Rubin. E' stato un viaggio di lavoro. Il barbuto vate dei produttori moderni ha fatto uno straordinario lavoro di bilanciamento tra il soffuso e quasi silenzioso lato folk e i convulsi crescendo orchestrali, un leitmotiv di quasi tutte le otto canzoni (Colour Me In, Long Long Way), che diventa facile bersaglio per i detrattori in cerca di difetti: la ripetitività, i testi non eccelsi. Ma cazzo se funzionano bene messi insieme (l'ipnoticità del singolo I Don't Want To Change You).
Un sarto che ama cucire le ferite con meticolosa pazienza, e le ferite amorose vengono in superficie con evidenza fin dall' apertura My Favourite Faded Fantasy dove la voce in falsetto squilla rimpianto, e proseguono in The Greatest Bastard (...sono il più grande bastardo che conosci, l’unico che ti ha lasciato andare, l’unico a cui non sopporti di far tanto male...). La sua musa e partner in musica Lisa Hannigan lo ha lasciato, non è più parte integrante della sua vita, ha lasciato un buco che Damien riempie con il talento compositivo, e anche quando pare eccedere in melodramma, c'è una molla che fa tornare tutto a posto. "A volte devi andare via da ciò che ami, per provare ad amarlo di nuovo. Darei via tutto, carriera, canzoni, fama per poter riavere Lisa " dichiara Rice.
Ha maturato la propria arte con discrezione, con piccoli passi, senza snaturarsi troppo da quell'ormai lontano esordio, continuità che le incisive ma sobrie copertine dei suoi dischi suggeriscono. Quei piccoli passi che vorresti compiere anche tu nell'ascolto, ma tramortito e rapito ti ritrovi a volerne ancora, preda di quella bulimica voglia di farsi del male. In questo periodo va così.
Damian Rice è un quarantenne alla continua ricerca di se stesso. Non è nemmeno l'unico. Non guardate me. Forse il segreto è proprio lì: quando centri l'obiettivo e malauguratamente raggiungi il sogno, finisce tutto.
Arrivi a Novembre con le tue certezze musicali dell'anno già impresse in testa come fa il calcare in una lavatrice, e poi tutto viene spazzato via dalla purezza di un bicarbonato di sodio bianco e naturale. My Favourite Faded Fantasy è una leggera carezza sulle ferite aperte e sanguinanti che immediatamente brucia ma poi lenisce, lasciando limpidezza e purezza. Ce n’è bisogno. Ne ho bisogno. Long long way…



vedi anche
RECENSIONE: GLEN HANSARD-Rhythm and Repose (2012)
RECENSIONE: EDDA-Stavolta Come Mi Ammazzerai? (2014)
RECENSIONE: MARY CUTRUFELLO- Faithless World (2014)
RECENSIONE: NEIL YOUNG- Storytone (2014)

lunedì 3 novembre 2014

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Storytone)

NEIL YOUNG  Storytone (Reprise Records, 2014)



Alcuni versi di I Want To Drive My Car ritraggono splendidamente ciò che è, e non è, Neil Young oggi. Perché ancora nessuno di noi l'ha capito bene. Diciamo la verità. Un uomo, un anziano rocker-se vogliamo esagerare ed essere cinici e realisti-di 69 anni che vive la sua vita dentro ad un vortice creativo in  continuo sconquassamento ma che va a pari passo con la sua vita sociale, le sue idee e la più intima vita privata. Un tutt'uno. Un blocco da prendere per intero così com'è. In I Want To drive My Car, un bel blues, canta: "voglio guidare la mia auto, voglio guidare la mia auto, sempre più avanti lungo la strada, voglio guidare la mia auto, ho bisogno di un posto dove andare...devo trovare la mia strada". Versi semplici, ingenui, ma c'è tutto. C'è l'amore per le automobili, ben rappresentato dall'acquerello in copertina e nei disegni che illustreranno la seconda parte di biografia in uscita (Special Deluxe: A Memoir of Life & Cars) che partirà proprio dalla sua collezione di automobili per snocciolare aneddoti di carriera, percorsi di strada e amici; c'è la continua ricerca del posto ideale dove poter vivere serenamente, luogo che nella sua testa esiste già ed è dipinto di ecologico verde; c'è il tormentato amore che dopo 36 anni di matrimonio con Pegi Young ha imboccato la strada che porta verso una nuova fiamma, l'attrice Daryl Hannah che condivide con lui l'impegno ambientalista; c'è la voglia di mettersi continuamente alla prova come artista, assecondando tutte le idee che passano tra la sua testa: l'altro ieri era la cabina sforna 45 giri di Jack White, un posto bizzarro dove poter registrare (volutamente male) un intero disco di vecchie cover, oggi è un'orchestra di 92 elementi sotto la regia di Michael Bearden e Chris Walden a cui ha dato carta bianca per rimpolpare le sue canzoni all'osso, nate acustiche naturalmente.
Altro doppio come Psychedelic Pill (dieci canzoni acustiche e dieci canzoni, le stesse, risuonate con l'orchestra, ma solo nella deluxe edition, consigliata), altro ambizioso progetto ma interessantissimo per poter saggiarne lo stato della  vena creativa (buona) e vedere lo sviluppo delle canzoni, dieci buone canzoni. Nel primo disco, il più tradizionale e meno sorprendente per alcuni versi, troviamo il lato primitivo e solitario in bilico tra la tesa drammaticità al pianoforte di un album epocale come After The Goldrush  (i rimpianti amorosi della bella Plastic Flowers, tutto il nuovo amore in I'm Glad I Found You e Glimmer) e la bucolica passeggiata tra i campi di Harvest prima, di Harvest Moon dopo, accompagnata da pianoforte, voce, chitarra e armonica che tingono il quadro di lievi colori, con alcune piccole gemme dove canta di nuove albe e nuovi amori: All Those Dreams , la commovente e "younghiana che più younghiana" non si può When I Watch You Sleeping e la ancor più leggera Tumbleweed.
"Quando ti guardo dormire, non c'è nulla che tu possa nascondere, quando ti sento respirare, c'è dolcezza intorno..." canta in When I Watch You Sleeping
La presenza dell'orchestra, invece, poteva spaventare, perché se i rimandi a A Man Needs A Maid e There’s A World  evocano i piacevoli ricordi di Harvest  (altro pathos aleggiava nel ’72 comunque), dietro l'angolo incombeva minacciosa la mannaia della magniloquente pomposità che se ripetuta per dieci volte, poteva trasformarsi in un pesante martellata data alle parti basse. " Sapevamo che era un'esagerazione ma lo avevamo fatto e lo adoravamo" scrive in Il Sogno Di Un Hippie a proposito di quelle registrazioni datate 1972 con la London Symphony Orchestra e Jack Nitzsche. Oggi, potrebbe ripetere le stesse parole.
Nulla di tutto questo però, anzi, anche il drammatico crescendo del nuovo inno ecologista Who’s Gonna Stand Up sembra acquistare il giusto valore, rispetto alla più tamarra versione presentata nei live estivi con i Crazy Horse (per me ha pagato lo scotto di essere l'ultima canzone in scaletta). Piace perfino quando si infila il vestito tutto paillettes e lustrini da sabato sera, si trasforma in crooner, e in  Say Hello To Chicago ritorna al R&B con tanto di big band al seguito, facendo riferimento a un disco da rivalutare assolutamente come This Note's For You. In quel 1988 dietro al bancone di regia c'era Niko Bolas, oggi pure, e i due si conoscono bene anche se si nascondono da sempre dietro al nome "Volume Dealers". I Want To Drive My Car diventa un trascinante e affascinante blues con chitarre elettriche (le poche presenti lungo tutto il disco), e fa coppia con Like You Used To Do.
Sintetizzato, questo è un atto d'amore verso la vita, sincero e pure ingenuo in molti punti, ma sempre vero. L'ennesimo. Un contrasto vincente-e confuso- come lo è stata tutta la sua carriera: Neil Young è innamorato come un ragazzino ma ha un ingombrante peso dentro da espiare dopo una relazione importante finita, la terra su cui vive gli sta a cuore ma la vede continuamente minacciata, i suoi hobby lo tengono talmente impegnato da diventare i fari guida delle sue autobiografie. In pochi mesi ha portato a termine un tour elettrico con i Crazy Horse, si è rinchiuso dentro ad una cabina di un metro quadrato  con una chitarra acustica, ha aperto i portoni ad un'orchestra, ha finito un altro libro, e chissà cos'altro che non sappiamo. Tutto questo mentre deve ancora trovare la sua strada. Ecco il segreto: non stancarsi mai di macinare chilometri di esperienze.
O stai dalla sua…o lo hai abbandonato da tempo.
Voi da che parte state?


vedi anche RECENSIONE:NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Americana (2012)




vedi anche RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)



vedi anche RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)




vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)




vedi anche NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, Collisioni, 21 Luglio 2014


vedi anche COVER ART#4: NEIL YOUNG (On The Beach, 1974)