lunedì 18 agosto 2014

RECENSIONE: JACKSON BROWNE (Late For The Sky)

JACKSON BROWNE  Late For The Sky (Inside Recordings/Rhino Records/Warner, 1974/2014)


Quando un disco è perfetto c’è dopo da aggiungere. E’ quello che deve aver pensato Jackson Browne quando ha messo mani a questa riedizione del suo capolavoro (rimasterizzata dai nastri analogici originali), nata per celebrare  i quarant’anni dall’uscita e fortemente voluta dallo stesso autore, nell’anno in cui egli stesso è stato tributato dai colleghi (Bonnie Raitt, Lyle Lovett, Ben Harper, Bruce Springsteen, Lucinda Williams, Bruce Hornsby tra i tanti) nel bel doppio disco Looking Into You, e che vedrà l'uscita (7 Ottobre) del nuovo album in studio Standing In The Breach atteso fin dal 2008, quando uscì l'ultimo Time The Conqueror.
Nessun proclama altisonante, nessuna bonus track, nessuna traccia live del periodo a rimpolpare. Bastano le canzoni e la iconografica copertina di Bob Seidmann, arrivata in ispirazione a Browne prendendo spunto dall' opera L'Empires Des Lumieres del pittore belga  Rene Magritte, e divenuta simbolo di un periodo florido dal punto di vista musicale quanto amaro da quello personale. Quel poco in aggiunta sono i testi, mai apparsi in nessuna edizione precedente anche se da sempre ben vividi nella memoria dei fan. E qui i testi contano, perché dietro a canzoni che potrebbero nascondere le debolezze sentimentali dell’autore, le perdite (amorose nella struggente title track, le amicizie in For A Dancer) si nascondevano le sconfitte-un anno dopo, sua moglie si tolse la vita- le incertezze ("non mi è chiaro quello che voglio dire" canta in Farther On) di una intera generazione che aveva smarrito la via maestra e all’orizzonte vedeva il nero di una apocalisse travestita anche da incubo nucleare, la finale Before The Deluge diverrà un inno in tal senso, traghettando Browne verso la creazione del movimento MUSE (Musicians United For Safe Energy) e gli importanti concerti No Nukes del 1979 che coinvolsero tanti amici musicisti.
Tutto scorreva su canzoni che troppo frettolosamente qualcuno battezzerà soft rock, ma che pesavano come macigni. Altro che leggerezza. Ballate amare dove la chitarra di David Lindley era in grado di far uscire il sole californiano (il graffiante rock'n'roll da viaggio di The Road And The Sky, il funk/reggae di Walking Slow) o far cadere amara pioggia di lacrime (The Late Show). Jackson Browne fu uno dei più fulgidi poeti di quel periodo, capace di mantenere, nel tempo, il fisico e quell’aria da eterno ragazzo californiano (anche se nato in Germania) ma lasciare gran parte dei sogni e un po’ dell’ispirazione migliore (che continuerà almeno fino a Hold Out-1980, con gli splendidi The Pretender-1976 e Running On Empty-1977 in mezzo) impacchettati nel sedile posteriore di quella chevrolet eternamente parcheggiata in quel tipico viottolo americano di L.A.-ma con i cieli del Messico (fotomontaggio ahimè)-davanti a quel lampione dalla luce sempre più fioca, ma non ancora spento del tutto.

 

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