giovedì 31 luglio 2014

RECENSIONE: TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS (Hypnotic Eye)

TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS  Hypnotic Eye (Reprise Records/Warner, 2014)



Qualche anno fa, all'uscita dei nuovi dischi dei miei rocker americani preferiti, speravo sempre di sentire le chitarre esplodere, speravo che le canzoni rock prevalessero su tutto il resto, forse perché l'ascolto prolungato di hard/heavy mi cambiava le prospettive, tanto da cercare le stesse cose anche tra le pagine dei grandi songwriter statunitensi (e di quel canadese). Allora anche una canzone come Murder Incorporated di Springsteen diventava un piccolo must. Oggi, complice l'età (?), le esperienze, gli ascolti, cerco le "canzoni", che siano acustiche, ballate, suonate con un violino che accompagna o con il solo pianoforte. Hypnotic Eye qualche anno fa mi sarebbe piaciuto al primo ascolto, alla prima canzone, al primo riff di chitarra. Ora devo faticare. Gli ascolti devono aumentare. Alla fine vince il disco nella sua globalità (quindi non è una bocciatura, più una seccatura), ma che fatica. L'invettiva di American Dream Plan B fa partire tutto in quarta. Combattiva fin dal suo messaggio "difendiamo il nostro sogno". Eppure...eppure quelle chitarre sature e pesanti-entro i limiti, sia chiaro- (che nemmeno i peggiori Metallica "alleggeriti"di Load) non mi convincono, ricordandomi quando negli anni '90 tutti cercavano di salire sul carrozzone grunge inspessendo le chitarre, pochi erano credibili-tra i più credibili gli inarrivabili King's X di Dogman (consigliato)-cose già sentite mille volte, su mille dischi, benché le note escano da uno dei più grandi e sottovalutati chitarristi della sua generazione: Mike Campbell, classe 1950, una vita spesa all'ombra di Petty, uno che si prende per mano gli Heatbreakers e li porta dove vuole, tanto da offuscare spesso la stella del capo, soprattutto in questo disco. Quasi, il "suo" disco. Un mare di chitarre dall'inizio alla fine. Ma le canzoni? Da Tom Petty voglio le canzoni. Dopo tanti ascolti nessuna mi è rimasta veramente in testa. Ma come? Uno che ci ha lasciato in eredità American Girl, Free Fallin, Mary Jane's Last Dance, I Won't Back Down, You Got Lucky, Listen To Her Heart, Learning To Fly e qui mi fermo. Petty abbandona da qualche parte quel piacevole bagaglio power pop '60 e a risentirne sono la melodia, i cori, i ritornelli, i Byrds, la leggerezza. Musica orfana. In verità lo sta già facendo da molti anni, tanto che la discografia si può dividere in un avanti e dopo Rick Rubin (produttore di Wildflowers-1994). Fortunatamente non tutto il disco segue il cammino della prima traccia, il pericolo è per metà scongiurato, e un grigio e ombroso Echo o un cinico The Last Dj li aveva già incisi qualche anno fa, e lì ci stavano da Dio. Da rivalutare entrambi comunque.
L'anima da garage band, quella degli esordi (alla Mudcrutch), salta fuori e prevale quasi sempre, spirito che fa suonare con vigore giovanilistico, ora veloce e sfuggente come in Fault Lines, svolazzante e psichedelico negli assoli che Campbell semina in Red River, tra le migliori tracce del disco nel suo essere "alla Tom Petty" e con la giusta coesione tra tutti i membri degli Heartbeakers, con melodia e grinta che viaggiano accomunate " vediamoci stasera al fiume rosso/dove l'acqua è limpida e fredda/vediamoci stasera al fiume rosso/e guardiamo giù nella tua anima", così come in All You Can Carry, altra canzone ostinata dove ci consiglia di lasciare il passato alle spalle "prendi ciò che puoi, tutto quello che puoi portare/prendi ciò che puoi e lascia il passato alle spalle/dobbiamo correre" e in U Get Me High che ha i riff di ultima generazione alla Keith Richards, il basso di Ron Blair ben presente (veramente martellante in tutto il disco), ma la voce non è di Mick Jagger.
Il voler tornare al passato, però, gioca anche brutti scherzi: nel 1977 c'era American Girl, ora c'è Forgotten Man. Cambiano i tempi, rimane il suono, un beat alla Bo Diddley con un bel assolo centrale di Campbell, la ragazza ha lasciato il posto alla disperazione dell'uomo in difficoltà. La differenza? Quella vecchia la ricorderemo ancora fra cent'anni, quella nuova temo di no. Spero di sbagliarmi.
Quando uscì Mojo, ultimo disco nel 2010, mi affrettai a definirlo un grande ritorno al rock, ma più esattamente era un tuffo libero nel blues anche sognante e psichedelico (non ho mai capito tutta l'indifferenza che l'ha accompagnato, gran peccato) lo stesso che compie nella deludente Burnt Out Town, un blues pestone ma talmente canonico, stanco che pare anche un po' finto, sentito mille volte, anche nell'ultimo Dylan (lì, pare più vero), che se non ci fosse, nessuno la cercherebbe. Si salva la prova di squadra con l'armonica di Scott Thurston protagonista.
 Poi esistono episodi che si staccano dal contesto raccontato fin qui, aggiungendo varietà al disco, ma non l'immortalità al suo canzoniere: come la jazzata e sinuosa Full Grown Boy portata avanti dai delicati tasti di Benmont Tench- va bene che quest'anno ha fatto uscire il suo primo e discreto disco solista You Should Be So Lucky, ma lui è il vero assente in queste canzoni- il funk ora serpeggiante ora pompato e squassante di Power Drunk, la morbidezza dai sapori quasi latini di  Sins Of My Youth. Mentre la lunga  Shadow People è l'oscuro, intimidatorio, sinuoso e epico finale, prova di squadra compatta e convincente (completa la formazione il lineare drumming di Steve Ferrone).
Hypnotic Eye è il vero ritorno al rock, un disco di muscoli scagliato contro il mondo materialista dei nostri giorni e schierato dalla parte degli ultimi emarginati, conseguenza e seguito ancora più estremo rispetto al predecessore, anche se penalizzato da una produzione satura che avrei evitato.
Petty ci dice "ho impiegato molti anni a scrivere undici canzoni", nel frattempo è sbarcato per la prima (unica?) volta in Italia, lasciando il segno e la fioca speranza di un ritorno. Hypnotic Eye farà faville in sede live, sempre che vogliate sacrificare qualche successo dalla vecchia setlist per far posto ai brani del nuovo album. Ma questo non è solo il problema di Petty ma di tutti i grandi con un passato importante di "canzoni" alle spalle. Ecco, le canzoni...Un pesante calcio in culo (che conferma gli Heartbreakers come una delle migliori band di classic rock sulla terra) dato più per istinto, che con una vera motivazione che faccia ricordare la lezione.




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martedì 22 luglio 2014

NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live@Barolo (CN), Collisioni, 21 Luglio 2014

 











SETLIST: Love And Only Love/Standing In The Light of Love/Goin' Home/Days That Used To Be/Living With War/Love To Burn/Name Of Love/Blowin' In The Wind/Heart Of Gold/Barstool Blues/Psychedelic Pill/Cortez The Killer/Rockin' In The Free World/Who's Gonna Stand Up And Save The Earth


RECENSIONE:
“Grande Neil…ma la scaletta? Sì ma…la scaletta?”. Questo il tormentone  che ho sentito di più ieri sera e oggi. La setlist? Coerente con la “coerente” incoerenza di tutta la carriera. Strafottente esuberanza nel continuare a fare, suonare, cantare quello che ha in testa, senza compiacere nessuno (eppure ci ha regalato la t-shirt “Earth”, la stessa che indossava sul palco. Grazie). Con tutti i piacevoli difetti inchiodati ai ferri del cavallo pazzo: un “Poncho” Sampedro compagnone in vena di scherzi  che mostrava il dito medio dalla sua t-shirt personalizzata, un Ralph Molina quasi invisibile dietro ai suoi tamburi, un defilato e serafico Rick Rosas con l’arduo compito di sostituire l’assente Billy Talbot, due coriste a intensificare i cori e dare una pennellata soul ai feedback della vecchia Old Black di Young.
Neil Young non canta ciò che vuoi, fa quello che sente. In questa setlist ci ho visto un accorato messaggio di pace, amore e distensione in giornate con il mondo attento, sconvolto, indignato ma  impotente davanti alle sciagurate notizie che provengono da Russia e Israele. Così anche canzoni apparentemente di serie B o C del suo vastissimo repertorio rivivono con il significato aggiornato al 2014. ‘Living With War’ uscì nel 2006, un canto di protesta, elettrico, spontaneo e urlato in faccia al presidente degli Stati Uniti  George W.Bush e la sua assurda guerra in Iraq- allora era Bush, ora scegliete voi-questo il senso; ‘Name Of Love’ (prima che un’altra bomba esploda, fallo nel nome dell’amore/prima che un altro missile voli, fallo nel nome dell’amore/per ogni ragazzo e ogni ragazza, fallo nel nome dell’amore), un vecchio semplice, buonista e un po’ retorico pallino di Young,  addirittura ripescata dal “così e così” ‘American Dream’ (1988) (a me è sempre piaciuto e me la sono cantata tutta), disco di quella reunion tra CSNY promessa a Crosby dallo stesso Young come “premio” per un  eventuale rinascita  dalla disgraziata vita in cui era caduto Croz in quegli anni; l’incedere tribale di ‘Goin’Home’ con le metafore sempre calzanti, è l’unica traccia di ‘Are You Passionate?’ che vede i Crazy Horse nei credits, disco uscito all’indomani dell’11 Settembre-suonata con la stessa intensità con cui avrebbero suonato una più nota ‘Cinnamon Girl’( che non c’è, naturalmente). Per tutti  ci sono le due canzoni acustiche a metà concerto (le più famose e scontate della serata): risposte che soffiano nel vento da circa cinquant’anni e nessuno è ancora stato in grado di acciuffare e un cuore d’oro ancora tutto da conquistare che allevi la solitudine, altrettanto difficile, ma alla portata di tutti noi comuni mortali. Per il resto dell’universo c’è la versione monstre di ‘Cortez The Killer’…

lunedì 14 luglio 2014

RECENSIONE: RIVAL SONS (Great Western Valkyrie)

RIVAL SONS  Great Western Valkyrie (Earache Records, 2014)



Anche se il loro Pressure And Time (2011) può tranquillamente essere considerato tra le migliori uscite di classic hard rock degli ultimi dieci anni, un debutto folgorante (il primo disco vero e proprio fu l'autoprodotto Before The Fire del 2009) i Rival Sons non sono per nulla appagati e non accennano a frenare in corsa. Si vestono a festa, si mettono in posa, ma picchiano ancora duro con gusto e classe d'altri tempi, continuando un processo di miglioramento che sembra non conoscere limiti, quasi i tour fossero un collante necessario all'ispirazione e proprio nei loro dischi cercano di catturare in tutto e per tutto quella carica e il fervore sprigionati sopra al palco. Il poker iniziale è quanto più di incandescente e suadente si sia ascoltato di recente: la bruciante Electric Man attacca a spron battutto ("I'm Electric, Yes I Am", cantano in Electric Man, tutto molto rock'n'roll senza alte pretese liriche ovviamente), Good Luck è un persuasivo rock zeppeliniano fino al midollo, shackerato con la carica della ultima garage band rimasta in terra, Secret una tirata quasi purpleiana nel suo cavalcare e sciamanica nello rispolverare i resti di Jim Morrison abbandonati sulla vecchia credenza, Play The Fool prende in prestito addirittura l'inciso di Misty Mountain Hop, un piccolo furtarello, questa volta un po' evidente, che si fa immediatamente perdonare.
Se togliete le recenti ristampe dei Led Zeppelin (fuori concorso per ovvie ragioni di onnipotenza) non vi rimane che tuffarvi dentro a un disco che il cantante Jay Buchanan si prende immediatamente per mano e conduce con gran piglio da leader dall'inizio alla fine tra spettacolari tirate (Open My Eyes, Belle Starr) e momenti dove a prevalere è il lato blues e soul, uno dei loro punti di forza che li differenzia da buona parte del retro rock imperante: magniloquente, sentita, calda e notturna è Good Things dove il chitarrista Scott Holiday ricama di fino tra blues, anima, magia e il corso del destino, trascinata da un hammond è Rich And Poor che richiama nuovamente lo spirito dei Doors, bucolica la ballata Where I've Been che tradisce la loro provenienza californiana dopo tanto british rock e la registrazione in quel di Nashville-ancora con il produttore Dave Cobb- lo sottolinea ulteriormente. Fino all'epico, psichedelico e tenebroso finale Destination On Course con la lunga coda jammata che mi da l'opportunità di segnalare la sezione ritmica (Michael Miley e il nuovo entrato David Beste): micidiale.
Le orecchie attente vi segnaleranno i tanti rimandi sparsi lungo il disco, date loro ascolto, fate un cenno con il capo ma fregatevene. Tradizionali, spregiudicati, avvolgenti, sensuali, senza tempo, concisi (dieci canzoni dieci e nessun filler inutile). Con buona pace  di chi le orecchie le ha lasciate sopra a qualche disco pre 1975, in questi solchi (ah il vinile sarebbe adatto qui) viaggia il miglior classic rock dei nostri giorni. Un peccato mortale non accorgersene per troppo snobismo.



vedi anche RECENSIONE: RIVAL SONS-Pressure & Time (2011)
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vedi anche RECENSIONE: TOM PETTY & THE HEARBREAKERS-Hypnotic Eye (2014)



martedì 8 luglio 2014

JOHN FOGERTY live@Milano, Ippodromo Del Galoppo, 7 Luglio 2014





SETLIST: Hey Tonight/Green River/Who'll Stop The Rain/Born On The Bayou/Lodi/Ramble Tamble/Penthouse Pauper/Midnight Special/I Heard It Through The Grapevine/Lookin' Out My Back Door/Hot Rod Heart/Susie Q/Mystic Highway/Long As I Can See The Light/Cotton Fields/Have You Ever Seen The Rain?/New Orleans/Keep On Chooglin'/Rock and Roll Girls/Down On The Corner/Up Around The Bend/The Old Man Down The Road/Fortunate Son/Rockin' All Over The World/Bad Moon Rising/Proud Mary

venerdì 4 luglio 2014

RECENSIONE:CHRIS CACAVAS & EDWARD ABBIATI (Me And The Devil)

CHRIS CACAVAS & EDWARD ABBIATI  Me And The Devil (Appaloosa Records/IRD, 2014)



Ci sono dischi che possiedono il fascino già celato nella copertina e nel titolo. Me And The Devil è uno di questi. L'occulto significato dentro a quei tarocchi cela la vita e questo disco mette in primo piano la voglia di vivere, di viaggiare con i piedi e con la mente, tra la polvere e gli astri, con il diavolo sempre al fianco, ora silente e complice ora ghignante e beffardo. Affascina e mette "la voglia" già da lì, da quelle bizzarre nove carte calate sul tavolo. Poi sfili un Cd, il primo che trovi all'interno del digipack e ti metti all'ascolto: splendide canzoni lo-fi, solo chitarre acustiche e voci che si alternano, si uniscono splendidamente, bisticciano, registrate "buona alla prima" con rumori e vociare in sottofondo, sbagli inclusi, imperfezioni pure. Ma rimani incantato, attratto da un magnetismo quasi arcano. Un fluire continuo. Vero. Che canzoni. Tutte splendide. Tutte scritte da Chris Cacavas, da anni trapiantato in Germania, un buon numero di dischi solisti ma soprattutto ex tastierista e fondatore dei Green On Red, una delle migliori scommesse americane degli anni ottanta-scommessa vinta naturalmente ma poteva andare ancora meglio- gruppo che, come molti di quella generazione, non durò mai abbastanza ma il dovuto per entrare nel culto e lasciare il segno all'interno di quel movimento nominato Paisley Underground e lanciare personaggi di tutto rispetto come Dan Stuart, Chuck Prophet e Cacavas naturalmente; e poi Edward Abbiati, sangue metà italiano metà inglese, voce e chitarra dei Lowlands uno di quei gruppi per cui andare fieri d'essere italiani, anche se non li troverete mai nelle pagine musicali dei quotidiani nostrani che tirano, band pavese tosta e arcigna con il piede nel presente, il cuore nel passato, e la fama internazionale più grande di quella nazionale.
Mentre ascolto, leggo le note del CD accorgendomi che c'è qualcosa che non torna. Sono citate una band, composta da due pezzi da novanta come Mike "Slo-Mo" Brenner al basso e Winston Watson alla batteria, musicista che vanta collaborazioni con Bob Dylan, Bob Marley,Warren Zevon, Giant Sand nel curriculum, più una buona dose di ospiti. Quando è tutto più chiaro mi accorgo di avere inserito il bonus disc, omaggiato solamente nella edizione limitata (un vero peccato che tutti non possano ascoltarlo), che presenta la nascita delle canzoni, il work in progress registrato con mezzi di fortuna (un telefonino) nell' abitazione di Abbiati dai soli Cacavas e il padrone di casa. Lascio finire le canzoni-un peccato interrompere il mood che si era instaurato-cambio il CD: i protagonisti si spostano da casa Abbiati e si rifugiano per soli cinque giorni nella cascina dietro l'angolo in quel di Pavia, la band li segue. Questo per dire quanto le buoni canzoni funzionino anche così spartane, e ve lo dice uno che ha trovato del buono in quell'opera bizzarra-e maltrattata- a titolo A Letter Home (poteva essere un bonus disc pure quello, è vero), l'ultima uscita di Neil Young. Non crocifiggetemi.
Tutto cambia e tutto resta uguale. Gli spazi vuoti vengono riempiti, la battente Against The Wall è un mantra ipnotico che detta i tempi del disco: fuoco che arde lentamente per crescere e bruciare, qui alimentato dal sax di Andres Villani, scheggia impazzita che si insinua tra i solchi; altrove, come nella successiva Me & The Devil  ci pensano l'armonica di Richard Hunter e le tastiere di Cacavas a tenere accessi i tizzoni dell'immortale blues: una perenne, ipnotica e sospesa danza. Accenti ispanici alla Calexico (Oh Baby, Please) che fanno a cazzotti con Long Dark Sky, la scarica rock più incisiva del disco, scheletriche e desertiche vie che piacerebbero a Howe Gelb (Can't Wake Up), fascinosi, misteriosi e notturni allunghi west coast alla Neil Young annata '74 (The Other Side), Hay Into Gold con il cello di David Henry, passeggiate lievi e delicate (The Week Song, I'll See Ya) e dolci sussurri accompagnati dalla Lap Steel di Mike Brenner nel country conclusivo (Rest Of My Life).
Dividere credits e meriti con la parte internazionale del disco è d'obbligo, ma Me And The Devil si candida, fin da ora, a diventare una tra le migliori uscite italiane dell'anno. Il feeling, la spontaneità e l'ispirazione che si percepiscono lungo la strada sono reali: un allungo visionario, desolato e cocente. Intrigante.




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