giovedì 17 ottobre 2013

RECENSIONE: KINGS OF LEON (Mechanical Bull)

KINGS OF LEON  Mechanical Bull  (RCA Records/Sony Music, 2013)

Abbandonato o superato lo status di "band sull'orlo di una crisi di nervi" che ne ha caratterizzato gli ultimi due anni di travagliata carriera, la famiglia Followill si rimetta nella giusta carreggiata, riuscendo anche a dare una piccola scossa (comunque senza troppe esagerazioni, chi non li ha mai amati continuerà a farlo, sia chiaro) alla pochezza musicale degli ultimi due lavori in studio. Il grande ed inaspettato successo mondiale sembrava essere piombato quasi a sorpresa sui testoni dei tre fratelli  Caleb, Nathan e Jared e su quella del cugino Matthew, cogliendoli impreparati, sommersi da troppi impegni promozionali e attratti dai più convenzionali vizi delle rockstar cattive e "arrivate" che alla lunga hanno portato più danni che benefici (una "malattia" contagiosa che sta colpendo anche i Mumford & Sons che hanno appena annunciato una lunga pausa "purificatrice" per gli stessi identici motivi-non tutti nascono Keith Richards) piuttosto che seguire umilmente il buon percorso intrapreso fin dal debutto che prometteva strade meno mainstream, artificiose e "poppeggianti" ma più malconce e polverose. Strade presto interrotte per lavori in corso. Incapaci di portare in giro per il mondo l'ingombrante titolo di band planetaria che qualcuno voleva cucire loro addosso, sono riusciti a smarcarsi, prendendo le distanze in estremis-almeno apparentemente- dalla compagnia delle più acclamate pop e rockstar mondiali che occupano stabilmente le grandi arene. E dire che un po' erano andati a cercarsele le grane: dopo un paio di dischi (il debutto Youth And Young Manhood-2003 ed il seguito Aha Shake Heartbreak-2004), sì derivativi e poco originali, ma comunque puri e genuini che sembravano proiettarli sulle stesse vie vintage e terrose del southern rock'n'roll come la loro terra natia, il Tennessee, imponeva, le stesse che il padre e zio, predicatore pentecostale, avrà percorso mille volte in vita. Entrarono invece dalla porta principale del successo con tormentoni indie/pop viziosi come  Sex On Fire (da loro stessi ripudiato in tempi recenti) e Use Somebody. Ecco, le hits: i tormentoni sono quelli che mancano in questo sesto lavoro della band che riesce a recuperare un po' del passato, con il ritorno delle chitarre incisive e rock, quelle che escono prepotenti fin dall'avvio Supersoaker, ma soprattutto da Don't Matter dal tiro garage punk diretto e senza fronzoli quasi alla QOTSA, nell'accattivante blues con le buone chitarre di Rock City, dalla melodia  in crescendo di Temple, ma anche da una sezione ritmica che martella a dovere nel funkettone Family Tree che si imparenta con il soul e il gospel.
Il resto sono notturne ballads: qualcuna riuscita come Wait For Me, altre come Comeback Story puntellata da arrangiamenti orchestrali troppo melensi, Tonight e Coming Back Again fanno l'occhiolino un po' troppo agli U2, On The Chin sfiora il country senza mai incontrarlo.
Purtroppo gli scossoni non bastano a cancellare del tutto quello che reputo uno dei maggiori difetti della band: quella piattezza che si trasforma-alle mie orecchie- in calo d'interesse che da metà disco in avanti inizia a prevalere (sarà  una loro scelta ponderata?) e che non riesce a convincermi in modo totalitario. I segni di ripresa ci sono, cercateli tutti nella prima parte di disco, ma ci sono.




vedi anche RECENSIONE:THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)




vedi anche RECENSIONE: ANDERS OSBORNE-Peace (2013)




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