venerdì 27 settembre 2013

RECENSIONE:THE WHITE BUFFALO (Shadows, Greys & Evil Ways)

THE WHITE BUFFALO  Shadows, Greys & Evil Ways (Unison Music, 2013)


I due dischi precedenti avevano già contribuito ad inquadrare il personaggio (Jake Smith) che si cela dietro all’ingombrante  nome The White Buffalo, l'ambientazione musicale e geografica entro la quale si muoveva, i suoi pregi ed i pochi difetti. Questo terzo disco, ne sono certo, sarà quello della consacrazione. Tutto viene amplificato, aumentato di spessore, di qualità, pur abbassando e smorzando i toni rock rimasti come rari ma abbaglianti lampi in poche tracce (When I’m Gone, la diretta ed elettrica Joey White, Joe And Jolene), soprattutto grazie al contributo dello stesso songwriter dell'Oregon che si supera, mettendo in piedi un  concept compatto ed omogeneo, emotivamente coinvolgente dove confluiscono le caratteristiche peculiari della sua visione musicale tutta a stelle e strisce. Il suo è l'ideale ponte tra la vecchia America cantata da Townes Van Zandt e dagli outlaw country men degli anni settanta, ancora appesa attraverso un sottilissimo filo al "sogno americano" e l'America della generazione degli anni novanta culminata con l'esplosione grunge e il funerale di tutte le vecchie speranze. Tutto è contenuto all’interno del narrativo concept che ci fa addentrare nell'appassionato amore di una giovane coppia di amanti: Joe e Jolene, divisa dalla guerra con i suoi orrori ben descritti nelle drammaticità acustiche di Redemption #2 e Fire don’t Know, dagli eventi della vita non meno violenti, dal difficile ruolo di un reduce all'interno degli schemi vitali della quotidiana routine, ma riunita, redenta e salvata (forse) dalla fede come testimonia la finale Pray To You Now. Tante domande esistenziali, con le risposte lì, in sospeso, affidate all'ascoltatore.
Con l’aiuto di Tommy Andrews al basso e Matt Lynott alla batteria, con la presenza "ospite" del veterano batterista Jim Keltner nella metronomica Don’t You Want It, l'irsuto Jake White amplia ulteriormente il suo spettro sonoro introducendo tra le dolenti ballate country: spietati temi sonori di stampo western (Set My Body Free), arrangiamenti per archi incastrati alla perfezione nell'iniziale Shall We Go On, nelle brevi 30 Days Back  e  #13 con violino e viola suonati da Jessy Greene, ma soprattutto una maggiore attenzione alla costruzione delle canzoni che culminano in The Whistler, con quel fischiettio iniziale che pare preso in prestito da The Stranger (la canzone) di Billy Joel ma si dipana in una triste ballata con un emozionante crescendo che diviene il centro d’enfasi della storia-unitamente a This Year- grazie anche alla straordinaria vocalità di Smith che lascia il segno, graffia e lacera, a volte così facilmente accostabile a quella di Eddie Vedder.
Meno immediato del suo predecessore Once Upon The Time In The West, più impegnativo e ambizioso, ma con la forza di uscire vincitore alla lunga distanza, confermando Jake Smith come uno dei più interessanti songwriters di “americana” degli ultimi anni, con tutte le credenziali per arrivare anche al (grande) pubblico più distratto che evidentemente sta ancora sonnecchiando. Meglio così o lo svegliamo?


 

vedi anche RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Once Upon The Time In The West (2012)



vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)




vedi anche RECENSIONE: ANDERS OSBORNE-Peace (2013)




RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Love And The Death Of Damnation (2015)


THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio 2016 a Brescia





martedì 24 settembre 2013

RECENSIONE:ROD STEWART (Rarities)

ROD STEWART Rarities (Mercury)


Apro subito una parentesi: Rod Stewart quest’anno ha fatto un disco, Time, ma sembra che pochi se ne siano accorti (almeno qui da noi, visto che in UK ha raggiunto la vetta delle charts), pur risultando tra le sue opere migliori da almeno vent’anni a questa parte, ritornando alla scrittura e interrompendo la lunga serie degli The Great American Songbook, che gli avranno pure gonfiato ulteriormente il portafogli ma stavano iniziando a sgonfiare qualcos’altro a noi. Chiusa parentesi. C’era un tempo, però, in cui l’eterno biondo cantante di origini scozzesi non era solo l’interprete da ascoltare sotto l’alberello di Natale, ma un cantante stellare dalla voce unica, distintiva, ricercata, che frequentava compagni di bevute poco raccomandabili (tre dei quali, le "facce" Ron Wood, Ronnie Lane e Ian McLagan  compaiono in quasi tutti i credits come musicisti) e che le 24 canzoni di questa raccolta -non imprescindibile per il die-hard fan che avrà già ottenuto tutto per vie non ufficiali, utilissima per tutti quelli che lo associano solamente a Do Ya Think I'm Sexy (una volta tanto va bene il contrario)- vogliono ricordare attraverso il recupero di versioni alternative, b-sides, radio sessions per la BBC mai apparse prima su disco, inediti risalenti al suo periodo Mercury (dal 1969 al 1974), iniziato dopo la felice collaborazione con Jeff  Beck e in simultanea con l’avvio della nuova avventura The Faces, in pratica i primi cinque dischi solisti, il suo apice artistico mai più eguagliato: The R S Album (1969),Gasoline Alley (1970), Every Picture Tells A story (1971), Never A Dull Moment (1972), Smiler (1974). Canzoni che esaltano il lato roots, folk-blues della sua roca voce in contrapposizione con il lato selvaggiamente rock'n'roll che assumeva parallelamente nei Faces. Oltre a due versioni alternative della hit di inizio carriera Maggie May, una con liriche non complete, l'altra registrata live alla BBC Radio One nel 1971, da non perdere la dylaniana Girl From The North Country esclusa da Smiler, l'honk tonk di Jerry Lee Lewis What's Made Milwaukee Famous ( Has Made A Loser Out Of Me), una-a dire il vero-sovraccarica Pinball Wizard (The Who) con la London Symphony Orchestra, Angel di Jimi Hendrix, una Country Comfort della coppia Elton John /Bernie Taupin in una versione live del 1970 alla BBC Radio, e la rilettura del classico di Cole Porter Every Time We Say Goodbye che sembra anticipare la sua futura carriera. Poi, improvvisamente nel 1975, l’aereo volò verso le luci tentatrici della California e di questo Rod Stewart rimarranno solo alcune sporadiche tracce disseminate in una carriera condotta da simpatica rockstar affermata ma con troppe paillettes luccicanti a dar fastidio-non a lui naturalmente- calate sugli occhi. (Enzo Curelli)





 
 
vedi anche RECENSIONE: ROD STEWART-Time (2013)

mercoledì 18 settembre 2013

RECENSIONE:GREEN LIKE JULY(Build A Fire)

GREEN LIKE JULY  Build A Fire (La Tempesta, 2013)


Squadra vincente non si cambia, ma si può ancora migliorare. La band lombardo/piemontese doveva ripetere l'eccellenza del fortunato predecessore Four-Legged Fortune (2011), lo fa e si supera, mantenendo invariati gli ingredienti base e aggiungendo solo il tocco necessario che fa la differenza, raggiungendo la meritata eccellenza di caratura internazionale che ormai non può che competerle di diritto. I Green Like July sono internazionali! Stesso gruppo di lavoro base: Andrea Poggio alla "vellutata" voce, chitarra e autore unico, Paolo Merlini alla batteria, più Marco Verna polistrumentista tuttofare e Roberto Paravia al basso, stesso produttore A.J. Mogis (Bright Eyes), stessi studi di registrazione americani, gli Arc Studios di Omaha nel Nebraska, ormai loro seconda casa, e infine l'artwork dalla incisiva semplicità affidato nuovamente alla brava artista Olimpia Zagnoli. Unica defezione rispetto al recente passato: Nicola Crivelli.
I valori aggiunti sono gli arrangiamenti del disco affidati alla bizzarra follia musicale di Enrico Gabrielli, un "moderno" alchimista degli strumenti che sembra provenire dal passato remoto, già conosciuto nelle fila di Mariposa, degli Afterhours, nei Calibro 35 (prossimi all'uscita con il nuovo album), più altri numerosi progetti a cui ha partecipato, i prestigiosi ospiti presenti (Mike Mogis, Jake Bellows dei Neva Dinova), ma soprattutto le nove canzoni- tutte-che viaggiano alla giusta altezza, in perfetto equilibrio tra l'amore, mai nascosto, verso la musica folk/roots americana di fine '60 (The Band, The Byrds), il pop anglosassone dei '60/'70 (con la coppia McCartney-Lennon in testa) ed i rari pixel di modernità (alla XTC o gli attuali Okkervil River) che fanno capolino qua e là in alcune soluzioni anche se ben coperti dagli effetti antichizzanti, gli arrangiamenti orchestrali da sogno ad occhi aperti con qualche rara ma buona svisata glam come succede nella più movimentata Borrowed Time, la più rock della lista.
Una soffice nuvola pop che ondeggia negli alti cieli con spietata gentilezza per poco più di mezz'ora-perché la bellezza non la si misura con l'orologio-lasciando penetrare tiepidi raggi solari che bucano l'aria (Agatha Of Sicily), rassicurano nella pacatezza melodica del quadretto dipinto da An Ordinary Friend, accarezzano nel folkie onirico di Tonight's The Night, asciugano lacrime nella "gentile" rassegnazione segnata dagli archi di Good Luck Bridge con il prezioso intervento vocale di Jake Bellows, e corteggiano tra le note di un carillon e i cori di Johnny Thunders (musicalmente, tutto fuorché quello che il titolo lasci pensare). Le stesse nuvole che lasciano cadere tiepide gocce di pioggia negli episodi più movimentati come la circolare e corale A Well Wellcomed Change, l'ipnoticità catalizzante dell'opener Moving To The City e la già citata Borrowed Time. Una tela senza sbavature, forse fin troppo perfetta per essere vera, si potrebbe obiettare.
Arrivati al terzo disco, il più grande complimento che si possa fare ai Green Like July è dire che "le nove canzoni suonano come i Green Like July".




vedi anche RECENSIONE: GREEN LIKE JULY -Four-Legged Fortune (2011)




vedi anche INTERVISTA a OLIMPIA ZAGNOLI




vedi anche RECENSIONE: LUCA MILANI-Lost For Rock 'N' Roll (2013)





vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)




vedi anche RECENSIONE: ILVOCIFERO-Amorte (2013)



mercoledì 11 settembre 2013

RECENSIONE: ILVOCIFERO(Amorte)

ILVOCIFERO   Amorte ( Niegazowana Records, 2013)


Se Edda (Stefano Rampoldi) avesse avuto ragione? Quella volta che alla domanda: "come hai conosciuto Walter Somà?", ironicamente, rispose così: "quel pezzo d’asino era il mio operatore della comunità dove sono stato per tanti anni. Sarei potuto guarire prima, ma lui aveva un sacco di problemi e io ho dovuto seguirlo per sei lunghi anni. Tutto inutile, comunque, visto che dopo la mia dipartita lui è ricaduto nel baratro surreale della sua vita".
Ecco, un po' di quel baratro surreale della vita di Walter Somà  emerge dal suo nuovo progetto IlVocifero, condiviso con la voce narrante di Aldo Romano e i numerosi ospiti/amici coinvolti. Un progetto che ha preso forma negli anni, piano piano, partendo da poche tracce messe nel cassetto dall'autore/musicista torinese, da anni con dimora a Milano. Quello che non è finito nelle canzoni del ritrovato Edda, di cui Somà è stato il gemello"nascosto" dietro ai dischi della rinascita artistica (Semper Biot, Odio I Vivi), è stato condiviso con il concittadino e vecchio amico Aldo Romano, un poeta di strada curioso, folle e surreale, un vagabondo della parola (e di fatto), ritrovato dopo molti anni e con cui si è riaccesa un'antica fiamma che in un paio di giorni ha portato i due a scrivere e completare tutto ciò che occorreva da sottoporre all'attenta "regia" di Fabio Capalbo, batterista nel progetto e mente dietro alla etichetta Niegazowana che li ha accolti. Un disco, come quelli di Edda, che sfugge ad ogni catalogazione possibile: libero di fluire, espandersi, restringersi, dare e riprendere, graffiarti e accarezzarti. Un contenitore "pop" disturbante ma estremamente fruibile, pieno di cose forti, esplosive, gridate, altre più dolci, tenui, sussurrate dalla voce di Romano, e dagli ospiti presenti: lo stesso Edda (Persona Plurale, Non Nel Tempo Né Nel Mondo), dalla triestina Dorina Leka (Lucyd, Nastro Solare) che forse ricorderete, anche se eliminata prima del dovuto, in una edizione di X Factor di qualche anno fa, e che proprio con Somà è al lavoro per un disco solista che stiamo aspettando da tempo. Dai musicisti coinvolti: il gruppo Ensemble Vinaccia, la chitarra di Gionata Mirai (Il Teatro Degli Orrori), Carlo Sandrini che si è occupato di tutti gli arrangiamenti d'archi e fiati.
Amorte non è nient'altro che il teatro della vita-dici poco?-rapresentato con tutti gli sbalzi d'u(a)more esistenti, con tutte le sfumature che altri cantori dell'italica canzonetta non vi canteranno mai in maniera così cruda, sincera e coinvolgente. Vanno in scena l'amore, la morte, le relazioni umane, la fede, le giornate e le notti solitarie (Blu e Amo) passate a vagare tra fioche luci  "...vago ed intono lo sguardo ai lampioni, che fanno una luce gialla che è quasi la mia santità, da solo o dio da solo, io potrei ricominciare, se non torno più a casa, questa volta me ne voglio andare e mi sento così fiero di essere così e non dormo, non dormo..." e sospiri eterni (Alito) che cedono al crescendo cacofonico "...io non ho Dei ma attimi, e nessuna presenza nella realtà, se vuoi sparisco, io non mi preferisco, io non ho idee ma angoli, non sopporto la forza di gravità, se vuoi ti stordisco...".
Tragicità e beltà sono rappresentate dall'interpretazione di un attore navigato "di vita" come Aldo Romano che nuota tra le acrobazie alla Mike Patton di Scagliàti che pare una colonna sonora riveduta dai Fantomas persa tra gli accenni jazz del pianoforte (Tazio Forte) e i fiati R&B da cult movie anni '50; galleggia nelle conversazioni a voce bassa con Walter Somà nel Il Gusto Della Morte, nel pop anni '60 esaltato dal crescendo d'archi di Persona Plurale, nell'atmosfera sospesa da ultimo duello "morriconiano" di Ultima Parola; schizza gocce d'acqua pungente e velenosa dal drum & bass incalzantemente persuasivo dell'opener Lucyd scritta ed interpretata con Dorina e nel rock Nastro Solare; affoga e boccheggia, scuote e incita nel particolare "family affair" del free jazz di Non Nel Tempo Né Nel Mondo, conversazione a due voci tra Romano e Edda.
Per chi è stanco della solita musica italiana, IlVocifero è altamente consigliato, perché ci presenta un nuovo personaggio da seguire con curiosa attenzione (Aldo Romano), ci conferma Walter Somà come uno dei più sensibili e creativi autori di musica italiana (e ama pure apparire poco in prima persona, il che non guasta di questi tempi da social network compulsivo) e ci offre nuove vie d'ascolto: traverse, folli, fascinosamente intriganti, incastrate tra tesa drammacità e sano sberleffo. Insomma, sempre vita è.
Il baratro surreale della vita di Walter Somà è senza fondo. Edda aveva ragione.





vedi anche INTERVISTA a EDDA (Impatto Sonoro), 10 Gennaio 2011





vedi anche RECENSIONE: EDDA-Odio I Vivi (2012)



venerdì 6 settembre 2013

RECENSIONE:CESARE CARUGI (Pontchartrain)

CESARE CARUGI  Pontchartrain ( Roots Music Club/IRD, 2013)


La prova ascolto sopra ad un'automobile? Sempre rivelatrice con dischi come questo. Meglio: piacevole. Poco importa se la mia quattro ruote non è una Cadillac Eldorado del '72 e le strade non sono troppo panoramiche. L'asfalto bollente d'Agosto, l'aria che entra dai finestrini, il sole che perfora i vetri e brucia la pelle, sono gli stessi che animano le strade del mondo, e come il "toscanaccio" (di Cecina) Cesare Carugi mi disse nell'intervista di un anno fa, parlando del suo debutto: "spesso e volentieri non è il dove sono che mi ispira ma il cosa vedo. “Here’s To The Road” ha un approccio visivo tutto americano, ma le strade dove è nato sono anche quelle italiane. La strada è la strada ovunque tu vada."  Pensiero che si adatta bene anche questa volta,  arricchendosi di tanti altri particolari, ancor meglio se si inizia il viaggio dal radioso e placido ciondolamento '50 della speranzosa ultima traccia We'll Meet Again Someday, proprio quella con il video girato sopra ad una Cadillac Eldorado che scorazza per le nostrane vie tricolori in compagnia delle due chitarre degli orobici Mojo Filter, Carlo Lancini Alessandro Battistini, a cui si aggiunge, su disco, anche il bassista Daniele Togni (ospiti graditi), e capisci quanto sia tutto vero. Canzone impeccabile.
Se il debutto Here's The Road (2011) vi era piaciuto, potete prolungare la gioia perché questo seguito, pur discostandosi dal precedente disco preferendo una maggiore omogeneità di fondo e facendosi apprezzare per il minuzioso lavoro negli arrangiamenti, è un altro piccolo miracolo tutto italiano di musica "made in America". L'ennesimo, oserei direi. Qui ci stanno viziando bene.
Meno diretto e più costruito, più scavato in profondità e meno istintivo, Pontchartrain è un viaggio agro-dolce che preferisce il lungo e disteso passo delle ballate, lasciando gli scatti rock unicamente all'apertura Troubled Waters, un numero alla Tom Petty & Heartbreakers che pare una outtake-di quelle buone-di Damn The Torpedoes impreziosita dalla slide dell'ospite Paolo Bonfanti capace di delineare spazi infiniti; all'incedere garage/psychobilly della terremotante (termine purtroppo adatto, visto il testo) Crack In The Ground , tetra e carica di chitarre elettriche (oltre a quella di Carugi, anche Leonardo Ceccanti e Matteo Barsacchi) e alla seconda parte di Your Memory Shall Drive Me Home, canzone che si sviluppa nell'intenso crescendo.
Carugi questa volta sembra preferire il gioco delle sfumature e lo si capisce quando con una magistrale prova vocale ci fa immergere dentro alle atmosfere soul/blues, fumose, notturne e sudaticce di My Drunken Valentine-già elevata a mia preferita-che fin dal titolo ci promette  un giro tra il romanticismo e la decadenza metropolitana di piccoli club malfamati e vicoli sempre troppo stretti, gli stessi frequentati dal giovanissimo Tom Waits o dal miglior Billy Joel di ritorno nella grande mela di metà anni settanta, con i tasti del pianoforte di Jacopo Creatini a battere l'atmosfera giusta ed il testo che recita una storyboard fascinosamente intrigante; pianoforte che diventa protagonista insieme ai fiati (sax e clarinetto) in When The Silence Breaks Through, ballata epica che cita in causa Van Morrison e lo Springsteen romantico, sognatore e perso tra la giungla d'asfalto. Basterebbero queste due canzoni per capire l'alto livello raggiunto da Carugi come autore, qualità che lo porta a bussare alla porta dei grandi songwriters d'oltreoceano (a partire da John Prine arrivando fino a Ryan Adams) e ulteriormente confermata dal copione cinematografico, disteso e romantico degli amanti protagonisti di Charley Varrick cantata in coppia con Marialaura Specchia, cantante che abbiamo già conosciuto nei bravi-e concittadini di Cesare-Verily So; nella ballata acustica Drive The Crows Away con il prezioso violino di Chiara Giacobbe ad indicare la strada; nelle tristi solitudini da west coast notturna di Long Nights Awake con l'armonica di Andrea Giannoni a contare le stelle; o nelle paludi calpestate che circondano il lago Pontchartrain che oltre a dare il titolo al disco ed al blues di Pontchartrain Shuffle, che si avvale della chitarra di Francesco Più, delimita una impeccabile prova d'autore che meriterebbe di strabordare oltre ogni confine, nazionale ed internazionale. Il momento è giusto.
In uscita il 24 Settembre 2013.



vedi anche INTERVISTA: CESARE CARUGI,  7 Marzo 2012




vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Here's To The Road (2011)




vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)





vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA-Wake Up Nation (2013)




vedi anche RECENSIONE: LUCA  MILANI-Lost For Rock'n'Roll (2013)



martedì 3 settembre 2013

RECENSIONE: BLACK JOE LEWIS (Electric Slave)

BLACK JOE LEWIS   Electric Slave ( Vagrant Records, 2013)

Dannato di un Black Joe Lewis! Non ho ancora smesso di saltare davanti all'indemoniato e sudicio groove che usciva dalle casse che sparavano il precedente Scandalous (2011) che è giunto il momento di continuare il vizio ad oltranza nel nuovo terzo album Electric Slave. Tolta la firma dei fidi musicisti Honeybears dal monicker in copertina-ma ancora presenti con le mani allungate sugli strumenti, nonostante alcune defezioni come il cambio di batterista e l'abbandono del vecchio chitarrista che elegge Joe Lewis a unica ascia del gruppo-il suono della band si sposta maggiormente verso il lato garage minimalista della loro musica, inspessendo le chitarre e aggredendo l'ascoltatore piuttosto che ammaliarlo, senza rinunciare all'estrema varietà musicale che li caratterizza fin dall'esordio (Tell'Em What Your Name Is!-2009), anche se ascoltando la doppietta formata da My Blood Ain't Runnin' Right e Guilty esce tutto l'amore, sempre confessato, per la scena rock'n'roll di Detroit dei primi anni settanta: vocalità alla Iggy Pop, chitarre che intrecciano il serpeggiare dei fiati e il proto-punk è servito su un piatto d'argento fumante di tortillas texane appena sfornate.
Dall'alto della collina, vestiti da vecchi fuorilegge dell'antico west con tanto di armi e cinturoni che ricordano sia il solitario "papà" Taj Mahal-moltiplicato per sei- ritratto nella copertina di Giant Step quanto gli Eagles in versione Desperado, quelli che la band di Austin riversa fuori dagli amplificatori, fino ad arrivare giù a valle, sono suoni tosti e crudi: uno, due, tre, pronti, partenza, via e Skulldiggin  inizia a schiaffeggiare e graffiare la pelle con la forza di una chitarra fuzz, il piano e l'hammond in sottofondo e la voce piena di feedback di Joe Lewis a salmodiare, quando non assale come avviene nel rock'n'roll disturbato e noise sparato nella viziosa Young Girls, a testimoniare che il nero musicista texano non ha perso né il pelo né il vizio, forte di una personalità e faccia tosta strabordanti che trovano la propria dimensione ideale sopra ai palchi, dove gli ululati che accompagnano Vampire, la canzone più lunga del disco, promettono sfaceli incastrati dentro al lento e lugubre inizio R'n'B che sale via via di velocità prestandosi alla lunga free jam finale.
Se non avevate ancora capito che Black Joe Lewis ha sbagliato nel venire al mondo con almeno più di trent'anni di ritardo, ascoltate cosa dice del titolo scelto per l'album e capirete cosa pensa del comodo vivere moderno: "gli schiavi elettrici sono tutte quelle persone che oggi tengono i loro volti attaccati agli iPhones, il solo modo per tenere una conversazione con loro è farlo attraverso le onde magnetiche. Il prossimo passo sarà quello di collegarli alla loro dannata testa".
Quando però la sua voce passa dall'essere "iguana" a "macchina del sesso"come quella gridata dai migliori interpreti soul alla Solomon Burke, James Brown, anche il set che gli sta intorno si trasforma e durante The Hipster sembra tramutarsi nell'insidioso palco cintato come un pollaio del Bob's Country Bunker con il materializzarsi dei "fratelli del blues" ai controcori, oppure rimanendo alla pellicola di John Landis, diventare il set del Palace Hotel di Chicago per invitarci a partecipare alla festa di Come To My Party dove l'anima nera, R&B, soul con i fiati a fare compagnia, esce prepotente ed invita alle danze sfrenate. E bisogna ancora passare dall'irresistibile groove funk alla Sly Stone/Funkadelic di Golem e Mammas Queen.
Black Joe Lewis taglia il traguardo del terzo disco facendo un occhiolino al popolo del rock, i tanti cambiamenti-dall'etichetta discografica, al produttore (ora è Stuart Sikes, più John Congleton in tre pezzi), al monicker, al suono-oltre a segnare un nuovo inizio, potrebbero far pensare ad un prossimo passo verso il successo su scala mondiale. Fortunatamente, per ora, la "favola alla Black Keys" sembra scongiurata. Joe Lewis sembra ancora troppo armato e pericoloso per  compiacere chi lo vorrebbe invischiato dentro a certi giochetti mainstream.




vedi anche RECENSIONE: BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS-Scandalous (2011)




vedi anche RECENSIONE: JJ GREY & MOFRO-This River (2013)




vedi anche RECENSIONE: TEDESCHI TRUCKS BAND-Made Up Mind (2013)