giovedì 18 ottobre 2012

RECENSIONE: WANDA JACKSON ( Unfinished Business )

WANDA JACKSON  Unfinished Business ( Sugar Hill records, 2012)

Quando solo l'anno scorso ci diceva che la festa non era finita (The Party Ain't Over), bisognava crederle, non stava mica scherzando, la signora Jackson. Nè con la vita nè con l'età e nemmeno con la musica. Meno lustrini, meno fiati a festa, meno chitarre protagoniste ed invadenti e più tradizione, e il party continua al piano inferiore, in veranda, sopra le assi di legno, sotto i  gonfaloni e le bandiere americane ben in vista, tra i fondi di cocktail annacquati e rimasugli di tramezzini e tortillas. Quasi una festa da dopo sbronza. Con la pettinatura sempre in ordine, lo smalto ed il rossetto ancora al loro posto, ma con meno luci artificiali a farli luccicare.
Mi fa tenerezza che giovani musicisti si stiano prendendo cura di una icona del rock'n'roll come Wanda Jackson. Il precedente album, prodotto da Jack White, ci aveva dimostrato che la regina del rockabilly all'età di 74 anni è ancora in forma sgargiante. La festa era ai piani alti e White ci mise tanto di suo, anche troppo, per divertire e presentare ai suoi giovani invitati la vecchia zia dal passato ribelle. Fu successo e il nome dell'arzilla Jackson tornò a circolare come una volta, anche se un po' adombrato dalla stella di White che sembrava impossessarsi indebitamente del titolo di  primadonna
Dopo i bagordi della notte, si fa mattina. Questa volta tocca al più defilato figlio d'arte Justin Townes Earle, classe 1982, che con un colpo di spugna cancella le atmosfere più festose, funk e ballabili del precedente disco per dare alle canzoni un tocco da vecchia America: più rilassato, rootsy e accomodante ma con la voce della Jackson ancora inconfondibilmente graffiante, tra ruggiti e teneri miagolii da teenager, a volte anche piacevolmente irritante, tenuta in allenamento-nell'ultimo anno-addiritura aprendo i concerti di una nuova e giovane icona musicale come Adele.
Che Unfinished Business sia un disco diverso dal suo predecessore lo si capisce andando a leggere gli autori delle canzoni, divise tra cover ed altre scritte appositamente dal giovane Earle, come The Graveyard Shift, ballroom song con il piano di Skylar Wilson a dettare i tempi e What Do You Do You're Lonesome?. I due duettano anche, tra la pedal steel sognante di Am I Even A Memory, scritta appositamente dal cantautore country Greg Garing, e sembra quasi di vederli ballare come madre e figlio, con le suole delle scarpe che rigano il parquet e il sole che piano piano lascia il posto all'oscurità. 
Un ritorno al country (registrazione rigorosamente avvenuta a Nashville) e al blues che Wanda Jackson sembra aver apprezzato fin dal primo momento, definendolo un ritorno alle sue radici, quando, negli anni cinquanta, per prima colorò e abbellì il country con lustrini e tacchi alti, prima ancora che avvenisse l'incontro decisivo con Elvis e il battessimo nella blasfema chiesa del rock'n'roll.
California Stars, canzone persa di Woody Guthrie, musicata da Wilco e Billy Bragg nel primo capitolo "Mermaid Avenue" potrebbe essere la canzone simbolo del disco, anche se è piazzata lì, alla fine.
Non mancano comunque i momenti più divertenti come nel precedente disco, anche se resi meno sensazionali-e ad effetto- da una produzione più povera e attenta alle sfumature: come l'iniziale blues Tore Down di Sonny Thompson portata al successo da Freddy King, come il civettuolo doo-wop Pushover interpretato con piglio da ragazzina, come in It's All Over Now di Bobby Womack- conosciuta per essere stato il primo grande successo dei Rolling Stones- ed il gospel di Two Hands di Townes Van Zandt.
Fra pochi giorni (20 Ottobre), gli anni saranno 75. Auguri. 



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