mercoledì 5 settembre 2012

RECENSIONE: BOB DYLAN ( Tempest )

BOB DYLAN   Tempest  ( Columbia Sony Music, 2012)

Scrivo queste righe durante una di quelle sere di fine estate quando la calura ha già lasciato il posto alla frizzante aria settembrina che entra senza troppo permesso dal balcone, scompigliando il buio, i pensieri e solleticando la fioca luce dell’abat jour. E’ una di quelle sere dedicate totalmente a Dylan. Succedono una, due, tre volte all’anno. L’unica a scadenza fissa, non so perché, ma è sempre quella di fine estate (come l'uscita dei suoi dischi: ancora una volta l'11 settembre). Una di quelle sere in cui i dischi sono lì, sotto lo stereo, sparpagliati e disordinati, come l’ascolto delle canzoni: quando passi da Love Sick a Jokerman, da Dear Landlord a Political World, senza un senso logico temporale. E questa sera ci sono anche le nuove canzoni di Tempest. Qualche dylaniano riuscirebbe anche a trovarlo, quel nesso tra le canzoni.
Poi inizio a farmi delle domande.
Quante vite ha Bob Dylan? Quante ne ha raccontate? Quante ne ha cambiate, e quante ne ha salvate? Quante ne ha sotterrate-in senso artistico-prima ancora che ebbero inizio? Quando il passatempo era associare la didascalia “il nuovo Dylan” a qualunque essere vivente con una chitarra in mano. Only the strong survive.
Quante volte lo si è dato per morto-sempre in senso artistico, anche se non mancano episodi più terreni o da leggenda-, e quante volte ha dimostrato di essere più vivo che mai? Difficile rispondere. Perché il suo libro è ancora fascinosamente e misteriosamente aperto e oggi, lui è "molto" vivo.
Di una cosa si ha la certezza. Da Time Out Of Mind, Dylan ha ristretto il suo raggio d’azione. Attenzione, non vuol dire che abbia perso la vena creativa, anzi. Credo che la sua ricerca musicale di tutta una carriera abbia finalmente trovato un punto focale. Il recupero di tutta quella enorme quantità di musica di cui avrebbe voluto essere protagonista. Quasi una irrefrenabile voglia di impossessarsi del tempo, quello che per motivi anagrafici non ha potuto vivere e poter giustificare così, in modo totalitario, il titolo di artista del ventesimo secolo che spesso gli viene-giustamente- attribuito. Intanto i secoli sono diventati ventuno.
Tutto ha un suo perché: Good As I Been to You(1992) e World Gone Wrong(1993), dischi di vecchi traditionals degli anni venti e trenta riletti in acustica e solitaria bellezza, non furono che il preludio del  ventennio successivo che ha nel 1997, la data ufficiale della nascita dell’ultima vita dylaniana-coincidente con il sistema cardiaco che fa le bizze e il ritorno nella parte del menestrello ai piedi di Papa Wojtyla-, quella che continua ancora oggi e che il nuovo Tempest ha portato a sublime esaltazione. Ebbene sì, Tempest è un gran disco. Di ballate essenzialmente e qualche rovente blues. Di amore e di morte. Di tante citazioni da decifrare, studiare. Di passato e di presente. Di mistero e qualche certezza.
Ancora una volta, a Dylan piace prendere le veci del rocker in disuso, lo stesso che recitava in film come Hearts Of Fire o Masked and Anonymous. Quello saggio che sa partire da molto lontano per raccontarci il presente, usando metafore, giocando con le parole e le rime come solo lui, ineguagliabilmente, sa fare. Quello talmente fuori moda da essere eterno. Quello che si nasconde in concerto, defilato in un lato dietro alle tastiere e che gira per le strade americane, alla ricerca di nuove case da comprare, conciato come un vecchio barbone. Forse per prenderci per il sedere, forse per far risaltare ancora di più la sua grandezza, Dylan si diverte in questo ruolo e in quello di produttore dove si cela, ormai da alcuni anni, sotto il nome Jack Frost. A tal proposito, il disco suona dannatamente bene e Dylan canta ed interpreta come non mai.
Un rocker che rievoca secoli passati e lontani in Early Roman Kings e lo fa prendendo in prestito uno dei giri blues più famosi e strausati della storia-Mannish Boy di Muddy Waters, I'm a man di Bo Diddley-,e dove, solamente alla fisarmonica di David Hidalgo (il Los Lobos è preziosa comparsa in tutto il disco)  è consentito il disturbo del ripetitivo incedere.
Oppure come nella epica title track Tempest, ballata di 14 minuti in cui racconta il suo Titanic, ispirato da The Great Titanic della Carter Family, come detto dallo stesso Dylan, senza tralasciare moderni riferimenti alla versione cinematografica di James Cameron. Se Francesco De Gregori ci aveva raccontato in musica e parole il "prima" della tragedia con la festa, le attese, lo sfarzo della prima classe ma anche la povertà della terza, Dylan ci regala anche la raggelante fine dentro un mare nero in tempesta. Dove le classi sociali non contano più nulla. Dove si è tutti uguali. Un lungo valzer con un Dylan dalla voce confidenziale e paterna, come un nonno che legge antiche storie marinare ai nipoti rapiti."Saw the water getting deeper/saw the changing of his world". Un brano senza sussulti musicali, ripetitivo nella forma, che ha la sua forza nel testo narrativo e nella presenza di un violino dai sapori irish. Sembra riprendere quelle vecchie e lunghe canzoni del passato fino a Blood on the tracks.
Duquesne Whistle, unica canzone scritta in coppia con Robert Hunter e con un testo aperto a molte interpretazioni, anche di carattere sessuale, è uno shuffle con un tiro da big band anni '30, che sbuffa (qualcosa ritorna a soffiare) come un treno in corsa e ti fa battere il piede e schioccar le dita. Il tutto si apre con le vecchie note jazz provenienti da una antica radio a valvole e con un Dylan che sembra travestirsi (vocalmente) da Louis Armstrong. Primo singolo, accompagnato da un video divertente ma anche gratuitamente violento, che in parte ruba l'idea e rivisita il videoclip di  Bitter Sweet Symphony dei Verve.
Piace l'incedere blues e sferragliante di Narrow Way, con tutta la band  sugli scudi, la stessa che lo accompagna dal vivo: Tony Garnier al basso, George G.Receli alla batteria, Donnie Herron alla steel guitar, banjo e violino, Charlie Sexton e Stu Kimball alle chitarre. Canzone chitarristica che live potrebbe esplodere.
Tempest è un disco sostanzialmente di ballate: ci sono le note accomodanti, lievi e country di Soon After Midnight;
Scarlet Town, la mia preferita, è una ballata oscura e misteriosa che rievoca antichi paesaggi western, sbiadite fotografie dimenticate al sole, con il banjo e il violino (sembra provenire da Desire) che conducono lievemente il gioco fino all'assolo di chitarra. Quasi fosse una outtake di Oh Mercy o Time Out Of Mind.
Espiazione dei peccati in Pay in Blood. "I pay in blood, but not my own". E' forse la canzone con la melodia rock più orecchiabile, memorizzabile e diretta (sembra arrivare da Infidels), in un disco dove Dylan  ritrova le melodie sacrificate in questi ultimi anni, così come nei nove minuti ipnotici di  Tin angel, scandida in modo chiaro e brillante da splendide rime, che racconta di una tresca amorosa che si conclude nel peggiore dei modi.
La breve Long and Wasted Years è riflessiva, quasi un bilancio di vita con qualche rimpianto. Saranno i suoi? Intanto un organo stanco sbuffa un ciondolante blues. 
Roll on John chiude il disco. Epitaffio e ricordo per John Lennon, amico quasi coetaneo morto troppo presto, con un pianoforte che risuona come le più belle e ispirate canzoni soliste dell'ex Beatles. Una canzone che a Dylan mancava da molto tempo."Shine a light, Move it on, You burned so bright / Roll on John".
Tempest è un sunto degli ultimi quindici anni della sua musica, a cui ha voluto aggiungere quelle melodie da ricordare che mancavano negli ultimi quattro precedenti dischi : il Mississippi di Love and Theft, il malinconico  Modern Times, la frontiera di Togheter through Life, il passatempo natalizio di Christmas in the Heart. Un nuovo guizzo, una nuova zampata. Dylan.
Quando la vecchia stazione radiofonica che apre Duquesne Whistle inizia la trasmissione, non hai idea di dove le liriche ti porteranno. Uno scrigno pieno di riferimenti letterari, religiosi, musicali, cinematografici e geografici che solamente una mente ancora genialmente lucida come quella di Dylan riesce a generare. Peccato, ancora una volta, che nello scarno libretto(?), manchino i testi, anche se ci regala tre scatti fotografici (nelle foto): sul retro copertina è alla guida con il volante saldamente in pugno; all'interno: un primo piano con lo sguardo puntato lontano e una misteriosa figura femminile(con volto tagliato) alla sua sinistra  e poi con sigaro in bocca insieme a tutta la band. Tutto qua.
Ancora tanto lavoro per gli studiosi di Dylan, nell'anno che festeggia i cinquant'anni dall'uscita dell'esordio. Anno che si era aperto con il monumentale tributo Chimes of Freedom per Amnesty International ed è proseguito con la consegna della medal of freedom, massimo riconoscimento civile degli States, che il presidente Obama ha donato a Dylan nel maggio scorso. 
Tutti gli altri si potranno accontentare del miglior lavoro da Time Out Of Mind, e non è poco. Quante vite ha Bob Dylan?









 

4 commenti:

  1. Bella e pensata recensione. Complimenti

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  2. bella recensione..effettivamente è il miglior dylan dai tempi di time out of mind

    http://weareonlyriders.blogspot.it/

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  3. Bella recensione! Fantastico Bob Dylan!! Mahée Ferlini

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