sabato 29 settembre 2012

RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE ( The Whippoorwill )

BLACKBERRY SMOKE  The Whippoorwill ( Southern Ground Recording Group, 2012)

Nel sud degli States c'è una band che da alcuni anni sta riportando sui palchi  i vecchi fervori del southern rock più datato ed emozionale. Quello semplice e radicato. Quello che riesce ancora a trattenere ed incarnare gli ideali dei '70 e bilanciare musicalmente, in modo quasi perfetto, la parte country con quella più rock e blues, gli assalti chitarristici con la melodia. Lo fanno con estenuanti tour da headliner o aprendo per celebrità come ZZ Top, Lynyrd Skynyrd e The Marshall Trucker Band. I concerti ed il pubblico sono la loro linfa vitale e non mancano occasione per evidenziarlo.
Vengono da Atlanta, il loro nome è Blackberry Smoke e The Whippoorwill è il terzo album in carriera dopo Bad Luck ain't no Crime (2004) e Little Piece of Dixie (2009).
Anche se in questo nuovo lavoro non mancano deviazioni verso la parte più bucolicamente country e melodica della loro musica, niente è immutato nella loro scrittura e nella loro attitudine. Una canzone come la memonica One Horse Town farebbe invidia a più di un songwriter di country/americana e potrebbe portarli ad un grande successo commerciale. Gli spazi dilatati, aperti da lap steel e piano in un sogno chiamato The Whippoorwill con una chitarra  che ricama come un Neil Young a Zuma, non lasciano indifferenti, così come l'apparente semplicità dell'honk-tonk blues acustico di Ain't Got the Blues con dobro e piano.
Guidati dalla calda voce del singer e chitarrista Charlie Starr e dalla chitarra di Paul Jackson, con la sezione ritmica formata da Brit Turner alla batteria e Richard Turner al basso, con il prezioso intervento Brandon Still al piano e organo, i Blacberry Smoke innaffiano le radici del genere southern con devozione e rispetto ma anche con la schietta e fresca spavalderia giovanile.
L'apertura Six Ways to Sunday è quel southern/rock boogie con pianoforte che difficilmente si può trovare negli ultimi lavori dei Lynyrd Skynyrd. L'equazione è presto fatta: le nuove generazioni suonano vecchio e vintage, le vecchie band strizzano l'occhio al moderno, non sempre in modo credibile purtroppo. Qui di moderno troverete poco. Il camino acceso, il vino nel frigo e la voglia di perdonare le scappatelle di un vecchio amore nella melodia di Pretty little Lie, parlano chiaro.
Ancora amore e donne in Everybody knows she's Mine , fede in Ain't Much Left of Me che  battono dalle parti dei fratelli Robinson.
Leave A Scar è la canzone più veloce, con un taglio chitarristico molto hard ma con  banjo e hammond che cercano di farsi spazio, così come Crimson Moon e Sleeping Dogs bilanciate tra esplosioni hard di stampo '70 e riflessiva armonia acustica. Rock da grandi arene ma sempre funzionale e trascinante.
Dopo una Shakin Hands With the Holy Ghost dove il riff sembra provenire dal vasto repertorio degli AC/DC, il disco si conclude con Up the Road, ballata che sembra essere la loro dichiarazione di vita, con un finale in crescendo tra chitarre duellanti e cori gospel. 
Perfettamente prodotti da Clay Cook (presente alle percussioni in quasi tutte le canzoni), Matt Mangano e Zac Brown, il disco, che esce per l'etichetta discografica dello stesso Brown, si presenta in una veste grafica volutamente vintage e affascinatamente seppiata.
Per avere il quadro clinico del southern rock odierno, è obbligatorio passare per le strade della Georgia calpestate dai Blackberry Smoke. Sui cartelli stradali leggerete: in salute.


  

2 commenti:

  1. ...sono senz altro alfieri del nuovo corso southern rock...propongo anche i wiskey mayers....

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