sabato 5 maggio 2012

RECENSIONE: JACK WHITE ( Blunderbuss )

JACK WHITE  Blunderbuss (  Third Man Records, 2012)

Devo ammetterlo: la stella di Jack White, per me, ha iniziato a risplendere dopo l'affossamento dei suoi White Stripes. Prima vedevo l'astro brillare ad intermittenza, con il buon Jack che mi sembrava più un eroe da fumetti, o un personaggio cinematografico impersonato dal trasformista Johnny Depp. Non che ora i suoi look non andrebbero bene per le sceneggiature dei film di Tim Burton, anzi. Stella schiavizzata dentro ad una formula "a due" che imprigionava il suo talento. Ai White Stripes ho sempre preferito i suoi progetti collaterali: The Raconteurs (ottimo il loro Consolers of the Lonely-2008), The Dead Wheater e i suoi preziosi ripescaggi vintage da produttore: Loretta Lynn e l'ultimo divertente The Party Ain't Over(2011) con Wanda Jackson. Il mio disco preferito dei White Stripes è sempre stato l'ultimo Icky Trump che qualcosa in comune con Blunderbuss sembra averlo.
 Jack White è una star, relativamente giovane, che sta cercando di preservare le radici della musica americana: aiutandola, diffondendola, mettendoci la faccia e cercando di portare, alle orecchie dei  più giovani, generi musicali che difficilmente troverebbero l'esposizione mediatica che la sua figura riesce a dare. White sta al roots "americana" come Dave Grohl sta al Metal (vi ricordate del progetto Probot?). La loro sembra quasi una missione, spesso criticata, che direi riuscita in tutti e due i casi. White ci aggiunge anche -oltre a tanti soldi- un negozio di dischi, fabbriche per stampare vinili e una etichetta discografica (Third Man) a suo nome. Soldi investiti per l'amore in musica a 360°.
 Per la prima volta, nessun gruppo a cui badare ma la libertà di sfogare la fervida fantasia compositiva: "un album che non avrei potuto pubblicare prima di oggi. Ho evitato di pubblicare dischi a mio nome per molto tempo, ma ho l’impressione che queste canzoni possano essere presentate solo a mio nome. Sono state scritte da zero e non hanno avuto nulla a che fare con altro che non sia il mio modo di esprimermi, i miei colori e la mia tela...".
Le tredici canzoni di Blunderbuss hanno il volto scuro, decadente, gotico e sono quanto di più omogeneo White abbia prodotto in carriera. Rappresentazione moderna della parte più scura e nascosta della sua visione di Nashville, città dove vive da alcuni anni e che ha ispirato gran parte delle composizioni, dove i rapporti umani e le tragedie amorose giocano un gran ruolo nei testi.
La sua torrenziale chitarra elettrica si sente poco rispetto a quanto ci aveva abituato ( Sixteen Saltines e Freedom at 21 ) e compare qua e là con acidi e taglienti incursioni ed assoli dentro a canzoni piene di tutte quelle sfumature sacrificate in anni di striscie bianche. Perchè, sarà anche il suo disco solista, ma solo, Jack White non lo è mai. Circondato da una nutrita schiera di musicisti, molti nativi di Nashville, tante donne tra cui spicca la batterista Carla Azar (bizzarro sarà il suo nuovo tour che comprenderà due spettacoli in uno: la prima parte accompagnato dalla band maschile, nella seconda, dalla band femminile) e tanti strumenti vintage registrati con le tecniche più moderne del suo studio di registrazione personale. 
Se I'm Shakin', unica canzone non sua, ma cover di Rudolph Toombs, sembra riprendere il divertente lavoro di riscoperta fatto con Wanda Jackson, tutto il  disco viaggia su un tappeto di tastiere e pianoforti: il lento walzer country con la pedal steel di Fats Kaplin in Blunderbuss; gli iniziali alti e bassi di Missing Pieces guidata dal piano Rhodes; il folk anomalo con clarinetto e wurlitzer di Love Interruption in coppia con la ghanese Ruby Amanfu alla voce; l'oscurità classicheggiante del pianoforte di Brooke Waggoner (gran protagonista in gran parte del disco) in Hypocritical Kiss; una Weep Themselves to Sleep dove il british rock degli Who incontra le paludi americane e Thrash Tongue Talker come un Elton John in visita agli Stones in esilio a Parigi. E poi ancora gli  inserti quasi rappati dentro alle chitarre che rimpolpano Freedom at 21; il bagno nel Mississippi di I Guess I Should Go To Sleep che sa di antichi canti neri, la psichedeliche visioni pop '60 di On and On and On e la bizzarra conclusione con i violini e l'assolo di chitarra di Take Me with You when You Go che con Hip (Eponymous)Poor Boy rivelano ancora tutto l'amore per i Led Zeppelin "unplugged", con il piano di Waggoner e il banjo di Kaplin ancora in primo piano.
Lontano dall'essere il disco salvifico che molti hanno dipinto, Blunderbuss è però una buona biografia dell'animo (oscuro e variegato) musicale di Jack White, per anni nascosto dietro a riff di chitarra elettrica ed ora libero di volare come uccello rapace e curioso sopra alla musica tutta. Disco che cresce con gli ascolti.





vedi anche RECENSIONE: WANDA JACKSON-The Party Ain't Over (2011)

1 commento:

  1. speravo che almeno tu avessi una parola di critica... iotrovo qs uomo così banalmente inutile con i white stripes e da solo. ce ne sono a migliaia meglio di lui ma nessuno se li caga

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