venerdì 29 ottobre 2010

KEITH RICHARDS esce LIFE, l'autobiografia


Ancora pochi giorni e avremo anche noi italiani sotto il naso l'autobiografia del rocker, la cui filosofia di vita è stata la più venerata e copiata dai milioni di giovani alle prime armi con il rock'n'roll, con l'unica differenza che lui è così, non emula nessuno, sul palco e nella vita di tutti i giorni.
"Sì suonate come me, se lo volete.Ma che senso ha, se l'originale è ancora in giro? Ma non c'è bisogno di muoversi come me e di pettinarsi i capelli allo stesso modo. Io non faccio niente di speciale per essere come sono."(da Rockstar, febbraio 1982)

Uscirà il 3 Novembre per Feltrinelli, Life (530 pagine) l'autobiografia di Keith Richards, 66 anni e tante storie da raccontare, finalmente in prima persona con l'aiuto del giornalista/scrittore James Fox. Dalle prime indiscrezioni, sembra che prometta anche scottanti rivelazioni e confessioni sull'amico e compagno di avventura Jagger, che non sono andate troppo a genio alla grande bocca del rock.
"Provo affetto per Mick, ma non vado a casa sua da una ventina d’anni.E’ davvero insopportabile. A volte, mi dico: ‘Amico mio, mi manchi’. Poi mi chiedo: dove è andato?”(dall'autobiografia in uscita)

Sarà un piccolo viaggio negli ultimi cinquant'anni di rock, dagli inizi legati al blues e agli incontri decisivi per l'avventura musicale degli Stones, gli anni degli arresti e delle droghe, il rapporto con la morte e con i compagni di band, con i nemici/amici Beatles e soprattutto con John Lennon, il successo planetario, i tour, i vizi, il sesso e le donne. Insomma VITA.

lunedì 25 ottobre 2010

BUFFALO SPRINGFIELD Reunion


Le date del 23 e 24 Ottobre scorso saranno ricordate per la reunion di uno dei gruppi storici più importanti apparsi nell'America di fine anni sessanta. I Buffalo Springfield durarono il tempo di tre soli album ma di fatto aprirono strade importantissime per il folk-rock americano che si svilupperà dagli anni settanta in avanti. Originariamente composti da Neil Young, Stephen Stills, Richie Furay, Bruce Palmer e Dawey Martin, si formarono nel 1966 dopo che Young e Palmer a bordo del famosissimo "carro funebre" partirono dal Canada per cercare fortuna a Los Angeles.
Proprio lì incontrano Stills e Furay e fu subito magia a cui si aggiunse il batterista Martin. Dopo le prime esperienze ad aprire i concerti per i Byrds di Crosby, viene registrato il primo album omonimo che mette subito in luce le caratteristiche del gruppo, ovvero l'uso di tre chitarre e la particolare impostazione vocale. I dissidi all'interno della band non tardano ad arrivare un pò per i continui litigi tra i due leader indiscussi del gruppo, Young e Stills e un pò per i vari problemi di droga che toccheranno i componenti a turno.Il primo vero successo commerciale arriverà con un singolo:For What it's worth, scritto da Stills dopo i violenti scontri avvenuti a Los Angeles tra alcuni studenti che manifestavano contro la guerra in Vietnam e la polizia..

Il secondo album Buffalo Springfield Again esce nel 1967 ed è da considerare il loro capolavoro. Spiccano canzoni come Mr.Soul,Broken Arrow scritte da Young , Bluebird e Rock & Roll woman scritte da Stills.
Ma il buon successo dell'album non servirà a placare i problemi interni e di droga. Palmer verrà arrestato innumerevoli volte e sostituito definitivamente al basso da Jim Messina. Il terzo e ultimo album Last time around vedrà la luce nel 1968 ma il gruppo è già sciolto e ognuno dei membri prenderà strade diverse. Young inizierà la sua strepitosa carriera solista, Stills formerà un altro supergruppo con Crosby e Nash, Furay e Messina formeranno i Poco.
Voci di reunion si rincorreranno per quarant'anni , nel frattempo Martin e Palmer sono deceduti.
In questo 2010 succede però l'imprevedibile.

Bridge School Benefit Concert, 23 e 24 Ottobre 2010 Shoreline Amphitheatre, Mountain View, California, USA

Benchè negli anni fu sempre il più fermo e convinto "contrario" alla reunion, sembra proprio che parta da Neil Young l'idea di ritrovarsi su un palco insieme a Furay e Stills per suonare le canzoni dei Buffalo. L'ultima volta che i tre suonarono insieme fu nel 1968 durante il concerto di addio della band alla Long Beach Arena.

42 anni dopo rieccoli con le loro chitarre e con Rick Rosas(basso) e Joe Vitale(batteria) a sostituire gli scomparsi. Il Bridge school Benefit è un concerto annuale organizzato da Young e la moglie Pegi per raccogliere fondi a favore dei bambini disabili. Ad aprire i due concerti, importanti ospiti che hanno duettato con Young, sono stati della partita Pearl Jam, Elvis Costello, Emmylou Harris,Elton John e Leon Russell.

Questa la scaletta del concerto dei Buffalo Springfield:

On The Way Home
Rock & Roll Woman
A Child's Claim To Fame
Do I Have To Come Right Out And Say It?
Go And Say Goodbye
I Am A Child
Kind Woman
Burned
For What It's Worth
Nowadays Clancy Can't Even Sing
Bluebird
Mr. Soul
Rockin' In The Free World

RETRO RECENSIONE: BADLANDS Voodoo Highway (1991)

Approfittando della recente rimasterizzazione da parte della "Rock Candy" dei due dischi dei Badlands, superband che avrebbe meritato sicuramente più esposizione all'epoca...




BADLANDS Voodoo Highway (Atlantic records, 1991)




Il secondo disco dei Badlands (nel 1999 ne uscì un terzo, postumo: "Dusk"), creatura di Jake E.Lee, ex chitarrista della Ozzy Osbourne band, periodo "Bark At The Moon","The Ultimate Sin", puo' a tutti gli effetti essere considerato come uno dei piu' fulgidi esempi di hard blues degli anni novanta. Uscito nel 1991, due anni dopo il piu' patinato e prodotto esordio-comunque ottimo-vedeva la band sporcare nettamente il sound con una produzione piu' scarna ed essenziale sposando nel suono il blues settantiano tanto caro a band come Free, Bad Company, Montrose,Whitesnake e Led Zeppelin.
Guidati dalla sei corde di Lee, che finalmente poteva esprimere in toto il suo grande talento di bluesman, questo rimarrà il disco di Ray Gillen, uno dei piu' talentuosi cantanti partoriti dagli anni '80 e purtroppo anche uno dei piu' sfortunati. Mancata, per motivi legali, l'occasione della vita: l'entrata nei Black Sabbath di meta' anni ottanta, quelli che si accingevano a registrare "The Eternal Idol", con cui riuscì pero' a portare a termine alcuni concerti e registrare alcuni demo, recuperabili in rari bootleg, la sua vita viene prematuramente interrotta da un brutto male che lo porto' via a soli 34 anni. Paragonabile ai migliori vocalist hard degli anni '70, da Paul Rodgers a Robert Plant, Gillen ebbe con questo disco, inspiegabilmente sottovalutato all'epoca, l'occasione di un riscatto di carriera e a distanza di piu' di quindici anni dalla sua morte possiamo dire che ci riuscì pienamente.
La copertina del disco, raffigurante una dispersa casetta, immersa in un ambiente paludoso e' altamente indicativa di dove andra' a parare il disco. La superformazione completata da Greg Chaisson al basso e Jeff Martin alla batteria si lancia subito, fin dalla'iniziale "The Last Time" in un frenetico Hard blues, con la chitarra di Lee sugli scudi e un organo in sottofondo a fare da tappeto alla voce imprendibile di Gillen. Pochi punti deboli in questo disco. Autentici intermezzi acustici vanno ad incastonarsi a riff piu' pesanti come in "Show Me The Way" . Perle di autentico hardblues sono "Whiskey Dust", la splendida "Silver Horses", "3 Day Funk" (un funk blues che non sfigurerebbe in nessun disco dei Black Crowes) mentre canzoni piu' metal oriented come "Shine On", "Soul Stealer" e "Heaven's Train", fanno riaffiorare il passato dei musicisti di questo gruppo.
"Joe's Blues" non e' altro che una breve prova di abilita' di Lee all'acustica, mentre in "Voodoo Highway" ci stupiscono con un blues acustico con tanto di Lee al Dobro. Le due perle finali sono una cover di James Taylor, "Fire And Rain", resa naturalmente in chiave rock e "In A Dream" una canzone a cappella di Gillen, tanto per dare una ulteriore prova della sua versatilita' vocale.
Un piccolo gioiello da tramandare ai posteri , per far capire che nei primi anni '90 non esisteva solo il grunge ma anche band come i Badlands che pur durando lo spazio di due soli dischi, seppe creare un disco ricco di calore e tradizione rimanendo con un piede nel presente. Poi si sa quando due talenti come Lee e Gillen devono convivere insieme sono spesso scintille. La band si sciolse quasi subito e il triste finale l'ho gia' raccontato...

pubblicato in origine su: http://www.debaser.it/recensionidb/ID_28486/Badlands_Voodoo_Highway.htm






domenica 24 ottobre 2010

RECENSIONE: ROBERT PLANT - BAND OF JOY

ROBERT PLANT Band of joy (Decca,2010)


Il flirt di Robert Plant con il country/folk è cosa antica, mai nascosta nemmeno ai tempi dei Led Zeppelin e ancor prima di formare la grande rock band. Plant ripesca infatti il nome della suo primo gruppo, i Band of joy, (dove militava anche l'amico John Bonhan), lo piazza come titolo dell'opera e si butta a capofitto nell'interpretare dodici classici del genere, continuando in parte il lavoro fortunato iniziato in coppia con Alison Krauss. Coaudiuvato dall'esperto Buddy Miller, presente come produttore e musicista e con la supervisione dell'ormai onnipresente T-bone Burnett, compie un caldo e rassicurante viaggio intorno alla roots americana, costruendo uno dei suoi più riusciti dischi solisti e sappiamo che durante la sua carriera post-Zeppelin non ha mai amato adagiarsi sugli allori del passato o vivere di rendita.
Fermo nella sua coerenza atta alla ricerca di nuove sonorità in giro per il mondo, superati i sessant'anni , sembra aver trovato la sua nuova terra creativa in America tra pedal e lap steel, banjo e mandolini, in barba a chi sognava l'ennesima far(l)sa reunion del dirigibile. Mentre l'amico ed ex compagno John Paul Jones tortura i padiglioni auricolari con il post-stoner rock dei Them Crooked Vultures, Plant sceglie di accarezzare gli animi con la sua voce con gli anni diventata ancor più calda e ammaliatrice.
Un viaggio lungo l'America musicale tra folk, country,blues, rock'n 'roll e soul che parte da alcuni traditional come Satan your kingdom must come down, desertica e cupa tanto da risvegliare malvagi fantasmi sopiti nel tempo o Cindy, i'll marry you someday. House of cards è di Richard Thompson ed era contenuta in First light del 1978, mentre apre il disco con Angel dance degli ormai amici Los Lobos, con cui ha diviso il palco in tempi recenti.
Aiutato dalla voce femminile di Patty Griffin, presente in più brani, quasi a fare le veci della Krauss.
Monkey è una canzone dei Low, band contemporanea amata da Plant e ancora tutta da scoprire di cui ripropone anche Silver Rider, tanto per ribadire il profondo rispetto che nutre verso la musica dilatata di questa band indie di Duluth mentre con un salto a ritroso omaggia il grande Townes Van Zandt riproponendo e interpretando con grande maestria la sua Harm's swift way.
Central two-O-nine è l'unica canzone originale del disco composta con Miller ed è una western song da viaggio nel deserto mentre con You can't buy love va a ripescare un vecchio brano dei Kelly brothers e lo fa suo con una interpretazione che tanto si avvicina alle rock'n'roll ballads anni cinquanta e che avrebbe fatto invidia al miglior Elvis confidenziale.
Unica concessione alla modernità è la finale Even this shall pass away che con i suoi loop e rumori stona con il resto dell'album.

Un disco di covers che certamente non porterà nulla di nuovo nella carriera di chi la storia della musica l'ha già ampiamente scritta ma che cementa ancor di più il futuro musicale di un artista che tutto sommato non si è mai svenduto e mai come in questi ultimi anni( ascoltate anche il suo Mighty Rearranger del 2005, secondo me, stupendo) si sta prodigando ad esplorare nuove strade, aspettando il secondo capitolo in coppia con la Krauss di imminente uscita. Certo l'idea di andare a scavare nel passato, sembra la moda del momento messa in pratica da molti musicisti, seguendo le orme delle American Recordindg di Cash, ma alla voce di Plant si può perdonare tutto.


mercoledì 20 ottobre 2010

RECENSIONE: BLACK LABEL SOCIETY- ORDER OF THE BLACK


BLACK LABEL SOCIETY Order of the black (Roadrunner, 2010)



Quanto tempo è passato da quelle foto in bianconero presenti nella busta interna del vinile No rest for the wicked, album di Ozzy Osbourne che vedeva all'esordio un giovane e sbarbato chitarrista appena maggiorenne, dai capelli biondi e quasi cotonati come la moda hair -metal dell'epoca quasi imponeva, chiamato a confrontarsi nel ruolo che nei dischi precedenti fu occupato dal genio chitarristico di Randy Rhoads e dalla chitarra quasi blues di Jackie E.Lee. Magro, quasi esile, appoggiato ad un trespolo catacombale , poteva quasi confondere dall'assomiglianza con Rhoads. Sono passati 22 anni, il ragazzo è cresciuto e si è fatto vichingo. Il suo stile chitarristico che all'epoca iniziava a prendere forma ora è talmente caratteristico che papà Ozzy ha deciso, dopo più di vent'anni e 5 dischi registrati insieme, di abbandonarlo, colpevole di portare la musica del madman troppo sulla stessa strada dei Black Label society. Zakk accetta l'esonero da grande signore, arrivando addirittura ad elogiare il nuovo chitarrista della Ozzy-band, il greco Gus G, dichiarando pubblicamente che tecincamente lui stesso ne è inferiore.

E così a pochi mesi dal buon ritorno discografico di Ozzy Osbourne, evidentemente l'aria nuova ha fatto bene, tornano anche i Black Label Society, con un album che li riporta su territori molti vicini ai primi due album "Sonic Brew" e "Stronger Than Death".

Il precedente album "Shot To Hell", sacrificava l'energia a favore di un appeal più melodico, componente comunque sempre presente in tutti gli album di Wylde, ma questa volta circoscritta unicamente alle ballads.

Il trittico iniziale(Crazy Horse, Overload, Parade of the dead) lascia la scia di cenere al suo passaggio , tre classici esempi di Black Label Society-sound, riff pesanti e quadrati, assoli mai troppo invasivi ma incastrati alla perfezione in quel mix di Southern/Sabbath sound che lo cantraddistingue. Mescola sapientemente il sound sudista del suo primo progetto solistico Pride & Glory con la pesantezza dei primi lavori dei Black Label Society, creando un giusto mix di feeling e spontaneità chitarristica. Finalmente sembra lasciare anche da parte la voce "ozzyana" che si portava dietro da qualche tempo a favore della sua naturale ugola, perchè Zakk sa anche cantare e lo dimostra in quelle ballads come le pianistiche Darkest days, Time waits for no one e Shallow grave, che non avrebbero sfigurato in nessun disco delle grandi southern band americane degli anni settanta e che il nostro ha dimostrato di maneggiare sapientemente negli anni , incidendo interi dischi di roots-music.
Canzoni che fanno tirare il fiato per pochi minuti, perchè il barbuto Wylde riprende a marciare con i riff panteriani di Godspeed Hell bound e se mai i Pantera, io spero vivamente di no, decidessero di tornare insieme, Zakk sarebbe l'unico a poter sostituire il compianto Dimebag Darrell, per tecnica ma soprattutto per attitudine nei cuori dei fans.
Wylde si diverte e per una volta mette totalmente la sua tecnica a dispozione di un brano, nel breve intermezzo flamencato di Chupacabra.
Finale dedicato al padre nella toccante January, perchè Wylde ha un gran cuore, lo ha dimostrato in tante altre occasioni, cuore che speriamo rimanga tale visto i continui ricoveri ospedalieri causati dal suo vizio preferito chiamato alcol. Eppure aveva giurato di aver smesso ma come cantava Ozzy, il demone alcol(Demon Alcohol) è sempre in agguato. Canzone contenuta proprio in "No rest for the wicked". Il cerchio si chiude.

venerdì 15 ottobre 2010

RECENSIONE: WILLIE NILE ( The Innocent Ones)

WILLIE NILE The Innocent Ones (River House Records,2010)

Che Willie Nile, da qualche anno, stia vivendo una seconda parte di carriera è fuori da ogni dubbio. La sua prolificità artistica non è mai stata così alta e l'uscita di questo The Innocent Ones, a solo un anno di distanza dal più che buono House of a thousand guitars ne è la conferma tangibile.
Ascoltando il nuovo album si può percepire chiaramente quanto il piccolo cantautore di Buffalo, ma newyorchese d'addozione, stia vivendo un periodo di totale spensieratezza musicale e -penso- gioia interiore che vanno ad arricchire le sue liriche.
Visto questa estate sopra ad un palco, proporre alcune canzoni del nuovo album, si aveva l'impressione dell'impronta rock'n'roll e fun che il nuovo lavoro prometteva.
Echi di Ramones, da sempre amici e nel cuore di Willie, balzano subito all'orecchio nell'iniziale Singin'Bell, dopo che i rintocchi di campana annunciano e lasciano spazio a notizie di pace, amore e libertà per i soldati al fronte. Un punk'n'roll che si ripete nella corale dedica d'amore di Can't stay home e Hear you breathe. Nile si diverte, non deve più dimostrare nulla a nessuno e nemmeno a se stesso. I colleghi musicisti lo venerano e per i suoi fan è un idolo. Sembra aver trovato la sua speciale formula di giovinezza. La musica è parte integrante della sua vita e ha poca importanza dividere il palco con rockstar affermate come Springsteen o suonare in sperduti paesini italiani davanti a poche persone, quando si crede totalmente a quello che si fa.
Allora giù con il rock rollingstoniano nella storiaccia di provincia americana raccontata in Topless Amateur o con le ballate, quelle Folk/country come Rich and Broken, la pianistica e piena di speranza Song for you o il folk imtimo e solitario di Sideways beautiful.
Nile sa ancora essere un vecchio sognatore quando canta di una chitarra come unica arma a sua disposizione per combattere il mondo là fuori (One guitar) e sa catapultarsi nell'epicità della corale titletrack senza dimenticare il romanticismo che ancora vive dentro di lui.
Forse meno ispirato dei precedenti lavori, ma comunque un buon pretesto per far parlare di un artista, spesso dimenticato, ma che ha sempre messo in primo piano musica e fan. Assistendo ad un suo concerto si ha la prova di quanto Willie Nile sia un personaggio vero e schietto. Se vi capita a tiro...





vedi RECENSIONE: WILLIE NILE live ASTI musica 14 Luglio 2010




vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)




mercoledì 13 ottobre 2010

RECENSIONE: THE SWORD (Warp Riders)

THE SWORD Warp Riders (Kemado records, 2010)

Se siete in giro per la galassia musicale in cerca di qualcosa di fortemente eccitante da ascoltare, fermatevi per un attimo nel pianeta dei The Sword. Partiti con due album di intransigente Stoner/doom, arrivano alla terza prova con un bagaglio di esperienze che ne hanno modificato in parte l'indirizzo musicale. Spesi gli ultimi due anni ad aprire i concerti di gente "ricca e famosa"come i Metallica, con Warp Riders, complice la produzione di Matt Bayles( già produttore di Isis e Mastodon), riescono ad indirizzare il loro suono verso una componente melodica legata all'hard rock anni settanta che ne arricchisce la proposta. Ascoltando Warp Riders mi sono venuti in mente in alcuni spunti, i Corrosion of Conformity di dischi epocali come Deliverance e i Trouble senza però un grande cantante come Eric Wagner alla voce. Le canzoni ruotano intorno ad un concept fantascientifico che parla di un pianeta della galassia che ha smesso la sua rotazione intorno al sole, vedendosi così diviso in due parti, una esposta costantemente ai raggi solari ed una in perenne ombra, con gli abitanti in cerca della collocazione vitale all'interno del pianeta, con tanto di eroi e cattivi.
Potrebbe sembrare il classico passo più lungo della gamba, ma il concept regge benissimo e la varietà delle canzoni, diversamente dalla monoliticità dei due precedenti lavori, comunque di tutto rispetto, aiutano l'ascolto del disco. Nuove sonorità southern/blues si aggiungono alla componente stoner/doom, portando alle canzoni quella melodia che a stento trovava posto prima, così come la voce del cantante e chitarrista John D. Cronise si arrichisce di nuove sfumature. Ascoltando la canzone scelta come singolo Tres Brujas , non si può non notare, fin dal titolo una certa ascendenza dai conterranei texani ZZ Top.
Cavalcate hard, riff di chitarra massicci, cambi di tempo dove si trovano spunti maideniani come in The Chronomancer II:nemesis, che dopo un' intro lenta ed oscura si trasforma in una cavalcata degna di Harris e soci o i riferimenti alla NWOBHM nella strumentale Astraea's Dream. Bella, infine, la marziale e saltellante Lawless Lands, canzone significativa della nuova strada musicale intrapresa dai texani.




lunedì 11 ottobre 2010

RECENSIONE: THE BLACK ANGELS ( Phosphene Dream)


THE BLACK ANGELS Phosphene Dream (Blue Horizon Records, 2010)

Abbiamo sempre bisogno di viaggiare e quando ciò non avviene per via terrena, cosa c'è di meglio che lasciarsi per qualche ora tutto alle spalle e compiere pindariche traiettorie con la fantasia a mille.I The Black Angels ci aiutano e supportano.
Dopo averti inizialmente stordito la percezione visiva con la copertina, ti conducono con la musica verso i posti immaginifici della perdizione sensoriale in compagnia dei fantasmi più allucinati della musica anni sessanta.
Nuotando nel fiume rosso(River of blood), che conduce diritto ai mantra doorsiani, accecati dai raggi solari che penetrano dalle foglie di alberi disposti in fila indiana lungo una veloce strada deserta, percorsa a tutta velocità(Entrance song), dentro psichedeliche visioni che animarono le stagioni di Roky Erickson e soci.
Perdersi, storditi, dentro le visioni caleidoscopiche di Phosphene dream o contemplare il viaggio verso la mecca di True Believers, con i suoi ritmi orientaleggianti.
La band texana guidata dalla voce di Alex Maas ci fa percorrere il mistero in Bad Vibrations e ci catapulta nel progressive-psichedelico, in caduta libera dentro ad un Yellow Elevator, alla ricerca della luce dorata.
Non cercate certezze in questo disco, ma solo sogni e se il vostro è quello di poter, per qualche minuto, entrare in quell'epoca stonata e allucinogena di fine anni sessanta raccontata da Barrett,13th Floor Elevators e Jefferson Airplane, spegnete il telefono (protagonista del singolo rock/beat'n'roll Telephone) e lasciatevi condurre dai nuovi discepoli.Buon viaggio.


giovedì 7 ottobre 2010

RECENSIONI...dischi in ascolto...RONNIE WOOD(I Feel Like Playing)...KILLING JOKE(Absolute Dissent)...

RONNIE WOOD I Feel like Playing (EagleRecords, 2010)
Che le sortite soliste dei vari Stones non avessero mai brillato è un dato di fatto, purtroppo inciso indelebilmente nella storia dei dischi, ma che toccasse a Ronnie Wood cercare di invertire la marcia, nessuno se lo sarebbe mai aspettato, soprattutto quando si è in competizione con due pezzi da novanta come la premiata ditta Jagger/Richards.
Lasciate per un attimo da parte le ultime poco edificanti notizie di gossip casalingo, Ron Wood si ributta nella mischia del rock'n'roll, tirando fuori un disco che manca alla discografia degli stessi Stones da parecchi anni. Per farlo si fa aiutare da un nutrito numero di prestigiosi ospiti:Slash, Flea(Red Hot Chili Peppers), Billy Gibbons(ZZ Top), Eddie Vedder(Pearl Jam), il vecchio amico "era Faces" Ian McLagan, Kris Kristofferson e tanti altri. Quello che esce è un onesto, puro e divertito disco di rock ruspante e stoniano fino al midollo.Dal rock di Lucky man , Thing about you e I don't think so, passando per il reggae di Sweetness my weakness, il soul di I gotta see e Catch you.
Wood si improvvisa a fare Dylan nell'apertura del disco con la bella ballad Why you wanna go and do a thing like that for e si diverte nei blues di Spoonful(Willie Dixon) e Fancy pants con tanto di armonica. E' solo rock, fatto e suonato da chi non sa fare altro nella vita( non è nemmeno vero, visto che Wood è anche un rispettabilissimo pittore) ci piace e ci fa ben sperare per il futuro delle "pietre", il chè non è poco per un gruppo che da più di vent'anni è additato come una band di dinosauri.

KILLING JOKE Absolute Dissent (Spinefarm records, 2010)
Testualmente sembrano due le correnti che animano le canzoni di questo nuovo lavoro dei veterani Killing Joke. Due correnti che vanno ad unirsi verso una unica parola "rabbia". Rabbia verso il destino che solo tre anni fa ha portato via l'amico e bassista Paul Raven e rabbia verso il maldestro destino verso cui sta sprofondando il nostro caro pianeta.
Da sempre proiettati in avanti, il sound non ha perso quella componente apocalittica che li ha resi protagonisti della scena più sperimentale del rock da trent'anni a questa parte.
Alti e bassi hanno accompagnato la carriera di Coleman e soci, con una netta rivincita di popolarità nel nuovo millennio, grazie a due dischi intransigenti come il metallico omonimo del 2003 e il claustrofobico, cacofonico e labirintico Hosannas from the basements of Hell del 2006.
Ora nel 2010, per festeggiare i trent'anni dall'uscita del loro inarrivabile esordio, si ripresentano con la stessa formazione di allora(Jaz Coleman,Kevin"Geordie"Walker, Martin"Youth"Glover e Paul Ferguson) e con una varietà nei suoni che va a ripescare le varie fasi della loro carriera. Capita così di imbattersi in canzoni come la quasi danzereccia European Super State( pesante critica agli stati uniti d'Europa), che non può che riportare alla mente il periodo elettronico di metà anni ottanta e un disco come Night Time o l'elettronica più atmosferica e darkeggiante di The Raven King, sentita dedica all'amico Raven scomparso nel 2007, omaggiato anche in Honor the fire.
La presa di posizione ambientalista è ben scandita nel brano di apertura Absolute Dissent mentre il lato rock compare con la pesantezza chitarristica di The great Cull, This world Hell o di Fresh Fever From the Skyes, dove la batteria tribale scandisce il pezzo.
E se Here comes the Singularity si candida ad essere la nuova Eighties, in Depthcharge, l'atmosfera si fa ipnotica e la velocità aumenta, fino ad arrivare alla lunga e conclusiva Ghosts Of Ladbroke Grove, suggestionante nel suo lento incedere guidato dal basso.
Senza mezzi termini la miglior prova degli ultimi anni, ispirata e purtroppo, spiace dirlo, ma dalle grandi perdite nascono sempre le cose migliori.

Deceduto STEVE LEE...frontman dei GOTTHARD



Stava coronando il sogno di una vita,percorrere le grandi highways americane con la propria Harley Davidson. Il destino ha voluto che il sogno si trasformasse anche nell'ultimo viaggio di Steve Lee, frontman degli svizzeri Ghottard, sicuramente la band rock svizzera più famosa in patria e anche oltreconfine degli ultimi quindici anni, andando a conquistare anche fans in Giappone e SudAmerica.
Le fredde cronache raccontano di un incidente fortuito, avvenuto martedì 5 Ottobre nei pressi di Mesquite(Las Vegas),quando Lee in compagnia di altri motociclisti si era fermato a bordo strada per indossare degli indumenti antipioggia.Destino ha voluto che in quel momento un pesante automezzo sbandasse, finendo fuori strada, travolgendo le moto parcheggiate e il povero cantante.L'impatto è stato fatale. Purtroppo il tragico destino, senbrò dare un avvertimento questa estate, quando il frontman in compagnia della famiglia, fu coinvolto in un incidente stradale in Toscana, fortunatamente con poche conseguenze, allora.
Steve Lee, 47 anni era sicuramente una delle migliori voci di hard rock melodico d'Europa e i Gotthard, nati nel 1992 e autori di almeno una decina di album, sicuramente una delle band di punta dell'hard melodico europeo, con milioni di dischi venduti e tour in compagnia delle più grandi rockstar mondiali. L'ultimo "Need to believe", uscito solo un anno fa, conteneva una canzone Unconditional Faith, scelta come colonna sonora per il film sul pugile tedesco Max Schmeling, atteso nelle sale proprio in questi giorni.